Top

FENNESZ  Venice Revisited

Quando uscì Venice nel 2004, Fennesz prese la chitarra e la fece passare dentro una fornace di bit. Non si limitò a lucidarla: la scompose, la ridusse a limatura e poi la soffiò come vetro, fino a farle trattenere il calore in una luce pallida. Quell’album non era un omaggio illustrato alla città, ma un’ipotesi di atmosfera: acqua che pensa, muri che ricordano, corridoi di frequenze dove la melodia affiora come un riflesso sulle onde e subito s’incrina. 

Con Venice Revisited, oltre vent’anni dopo, l’operazione si fa più radicale. Riandare a quell’opera oggi non è restaurarne la patina: è riaprirne il cantiere con utensili diversi, perché degli attrezzi di allora è rimasto poco più dell’odore. Ricostruire significa riscrivere. Spostare il peso dei materiali, aggiungere vuoti e nuovi ponti, lasciare che il tempo, entrato a far parte dell’organico, suoni al pari di una parte strumentale.

Ieri sera, 16 ottobre 2025, al Teatro Malibran di Venezia, questo ritorno ha preso corpo. Un palco scabro, una chitarra che non chiede permesso, il sistema elettronico come una rete di canali sotterranei. Dalle prime onde si capisce che non sarà un pellegrinaggio nostalgico. L’aria del Malibran, con il suo legno antico, fa da seconda cassa armonica e la sala si chiude come un diaframma: si ascolta in apnea, con il suono che preme da ogni lato.

C’è un fatto che a Venezia pesa più che altrove: un veneziano non sente questo lavoro allo stesso modo di chi arriva con il biglietto ancora caldo in tasca. Dentro Venice Revisited, dentro la sua reinvenzione, si aggirano i fantasmi dei giorni feriali: le calli deserte al mattino presto, i sotoporteghi dove la voce rimbalza bassa, le fondamente immerse nell’amica umidità, l’ora in cui la città, finalmente, si ridesta. È un ascolto che non fa sconti a nessuno: qui si nominano gli angoli silenziosi che la folla ignora, si riconosce il pudore di chi ci vive e non urla, non invade, non degrada l’ambiente cittadino.

La materia sonora si stratifica senza mai accumularsi. Fennesz stende piani che sembrano respiri sovrapposti: veli di feedback, rasoio digitale, corde che sfiorano un accordo solo per allontanarsene un secondo dopo. In mezzo, come rammendi controluce, affiorano frammenti di voci, passi, rumori di soglia: minuscole figure di vita trascinate da una burrasca che non smette di avvicinarsi. Il racconto musicale dell’artista austriaco è un avanzare di maree: la tempesta come condizione costante che cambia solo direzione.

Poi la città, quella vera, entra come lama di coltello. In Venice Revisited i suoni diventano racconto di una Venezia ferita e stremata. Si sente il cipiglio della ruggine sui cancelli d’acqua, lo sfibrare dei mattoni, il respiro lungo che qualcuno, da fuori, accelera fino allo sfinimento. È il suono di un corpo che ama e soffre, di un organismo che non ha più tregua. Non è denuncia, non è elegia: è topografia emotiva, una mappa che indica punti di frana.

La violenza resta, ma non vince. La forza del Cavaliere Elettronico sta nell’architettura: costruisce muri di metallo e subito li incide con fenditure melodiche. La chitarra, sei corde come lame, urla in una lingua che non possediamo, eppure riusciamo a comprendere. Lungi dal creare timore,il suo è un urlo che attira. Ad ogni nuova ondata il frastuono si taglia da solo e lascia sul bordo un’eco quasi cantabile, una riga sottile che punge di nostalgia. In quel filamento si condensa lo struggimento più puro. Pare la voce di una creatura amatissima che tenta di liberarsi dal peso che la intrappola. Non ci riesce, ma il tentativo riempie la sala di una bellezza che fa male.

Il lavoro sulle texture è chirurgico. Le frequenze alte sfrigolano come sale sulla pietra calda, i bassi circolano in platea con la pazienza di chi conosce ogni piega del pavimento. Nulla è gratuito. Il rumore graffia perché deve farlo e quando arretra lo fa per preparare un’altra forma d’insidia. L’elettronica non copre mai la chitarra: la incastra, la moltiplica, la proietta in profondità e la tridimensionalità ne è la conseguenza: ci si muove dentro il suono come dentro un salone buio dove ogni passo è una scelta.

C’è anche la Laguna come memoria acustica. Non il cliché delle gondole, non la solita trita cartolina. Piuttosto il rimbombo corto delle corti nascoste, il granello di sabbia nell’aria, la salsedine che smussa gli spigoli e insieme li rende più taglienti. A ben ascoltare è la città che risuona. Si ascolta il tempo, avanti e a ritroso nello stesso respiro: il già perduto e il prossimo si sovrappongono come negativi in controluce. 

Dopo quasi un’ora, quando le maree interne si sono stabilizzate su un grigio di luce, il discorso prende l’ultima piega. Il titolo che torna in testa: The Future will be different, non suona come promessa, ma come ammonimento. Forse questo che abbiamo vissuto al Malibran è stato un rito, l’ultimo gesto di una città fragile che guarda il proprio domani con lo stesso tremito del vetro appena uscito dal fuoco. Futuro diverso, sì, ma di quale sostanza? 

La risposta non consola.

Uscendo ci si immerge nel brusio della folla; Venezia ricomincia ad essere contesa dal suo teatro infinito. Chi è di qui porta via un’altra dose di fatica, chi non lo è forse un’immagine più onesta della città. 

Il concerto di Fennesz alla Biennale Musica 2025 resta come una macchia d’inchiostro: non si cancella, ma continua a espandersi, cercando spazio tra le fibre e come accade con le cose vere, lascia nel petto un vuoto abitabile.

Non c’è stato bis questa sera, non ce n’era bisogno. Il suono aveva già pronunciato tutto. E quel tutto, stanotte, somiglia alla constatazione più semplice e più dura: Venezia respira ancora, piano, ma non per sempre; qualcuno la ascolta, la traduce, la difende a modo suo. 

Il resto, fuori, è rumore ma dentro quell’antico teatro, per un’ora, quel rumore ha trovato forma e ci ha guardato negli occhi. Mirco Salvadori

Biennale Musica 2025 

Teatro Malibran Venezia 16 Ottobre

ph Carsten Nicolai

Condividi