VERDENA
Brescia | Latteria Molloy | 10 aprile 2015
I Verdena, pur se inesorabilmente moderni, a loro modo sempre al passo con i tempi, hanno un irresistibile fascino demodè. Sembrano catapultati fra di noi direttamente da quegli anni ’90 che li hanno visti nascere, fra le nebbie della bergamasca, per poi spiccare rapidamente il volo (chi oggi è sulla trentina, o poco più grande, non può aver dimenticato il video di Valvonauta in heavy rotation su TMC2 – MTV in fieri; non può aver dimenticato perché quei versi meravigliosamente sgraziati, il riff tiratissimo e l’arcata melodica a strappi hanno avuto un impatto degno dell’accostamento – in chiave minore – con Smells Like Teen Spirit.
I Verdena collezionano sold out un po’ ovunque, e soprattutto – essendo fra i pochi cervelli fumanti originali del nostro indie rock – sono in grado ogni volta di metterti spalle al muro. Odio passare per nostalgico, ma provo un brivido (appunto) demodè davanti ai testi di Alberto Ferrari (un delirante non-sense dalle sfumature impressioniste), davanti alle evoluzioni di noise psichedelico che rendono accecanti quasi tutti i brani dell’ultimo EndKadenz Vol.1, cui per forza di cose il trio dedica una fetta importante del concerto. Provo un brivido davanti all’energia furibonda, eppure scientificamente calcolata, che sorregge l’impalcatura di tutti i brani, anche e soprattutto nella resa live.
Ancora, provo un brivido davanti alla muraglia che il trio ti mette davanti: nell’epoca in cui il mainstream ha fagocitato tutto, appiattendosi in un neo-melodismo che ha la stessa consistenza di un bicchiere d’acqua, i bergamaschi hanno il pregio di muoversi su un piano liminale in bilico fra musica di consumo e istanze alternative, risultando al contempo accessibili e credibili.
Se in tenera età giocavano a fare i Nirvana italiani, con Endkadenz (e con l’ultimo concerto) i Verdena confermano di essere progrediti, ampliando decisamente e continuamente gli orizzonti: i loop tribalistici di Rilievo (la cui rumorosa coda, quasi floydiana, è forse l’apice di tutta l’esibizione) attribuiscono alla chitarra un ruolo nuovo, perché gli accordi non servono più per inanellare riffs, ma per costruire una montagna, un grattacielo, un ponte sopraelevato. Già, i Verdena hanno potenziato e amplificato la propria capacità immaginifica: a conferma, la resa live di Sci Desertico è da pelle d’oca, Derek risulta incendiaria e sferzante, e anche un pezzo esile come Un po’ esageri scatena scene d’altri tempi (ancora gli anni ’90, il pogo), grazie al suo refrain fanciullescamente irresistibile.
Non c’è solo Endkadenz, in ogni caso: i Verdena omaggiano quasi tutta la propria storia, partendo da versioni al fulmicotone di Viba e di Luna (da cantare a squarciagola come se si avesse ancora vent’anni), passando per alcuni fra i momenti più “pop” di Requiem (una Don Calisto da pelle d’oca), per arrivare naturalmente al capolavoro onirico-visionario Wow, di cui compaiono ben sei pezzi. Dal lavoro del 2011 spuntano momenti para-battistiani (Scegli Me), il giro di chitarra memorabile di Loniterp (con finale brianwilsoniano impeccabile anche sul palco), la stralunata Razzi Arpia Inferno e Fiamme (che diventa inevitabilmente più cruda e rokeggiante).
Funeralus (da Endkadenz) è il poderoso finale dell’esibizione.
Cosa dicevo? Già, un frammento degli anni ’90. Centinaia di teste che si muovono al ritmo del rock.
Francesco Buffoli