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VASTO SIREN FESTIVAL

24-25 luglio 2015

Ogni concerto è irripetibile: è una performance che in quanto tale può approssimarsi ad un’opera d’arte totale, dacché comprende musica, cantato, dialoghi con il pubblico, scenario (naturale, architettonico o scenografico che sia), colori, talvolta persino profumi, brezza e umidità, che si confondono e fondono agli umori di un rito collettivo, in cui le canzoni perdono il carattere solitario dell’ascolto in cuffia. Per questo una manifestazione come il Vasto Siren Festival è probabilmente un unicum in Italia: anima il centro storico di Vasto alta con ben quattro palchi di grande suggestione (anzi, cinque se si conta la Chiesa di San Giuseppe, che ha ospitato giovedì 23 luglio Gareth Dickson), con le viste mozzafiato sul mare cristallino della sottostante Vasto Marina, il fascino dei palazzi cinquecenteschi e la dimensione raccolta di un evento a misura d’uomo, in cui la musica e gli artisti sono attorno a te, in un festival in cui è possibile scoprire più persone che star.

Così ad esempio la potenza barbarica e sacrale della musica di Iosonouncane e il dialogo impossibile di DIE tra una donna e un uomo divisi dalla burrasca trovano il 24 luglio il loro scenario ideale davanti ai resti della chiesa di San Pietro, emblema della frana del 1956 che travolse un intero quartiere abitato soprattutto da pescatori. Gli spettatori, immersi nella luce del sole pomeridiano dinnanzi allo spettacolo della magnificenza della natura della Marina, sono così catapultati in una storia perturbante tra parole che si fanno mantra e suoni che squassano l’aria selvaggi e inquietanti, quasi fino a far tremare le rovine di Porta San Pietro, o si fanno cinematici fino ad aderire ad ogni pietra, pianta e sguardo come l’atmosfera. Jacopo Incani, chino su pedali analogici, a riprodurre dal vivo, manipolare e combinare sequenze e sample, è come un mago nero o un alchimista, concentrato nel controllare e plasmare ogni suono; la sua voce si innalza viscerale e volutamente aspra nel fluire del set senza pause, ad evidenziare la mancanza di una soluzione di continuità tra le varie tracce del disco, tra crescendo dionisiaci.

A Piazza del Popolo d’altronde poco dopo segue l’EDM tra trance, trip-hop e industrial di Gazelle Twin, al secolo Elizabeth Bernholz, che si esibisce in duo: campionamenti, filtri e loop disserrano sul palco vastese gli inferi di una perlustrazione di incubi e ansie inconsce, che l’astro nascente dell’elettronica porta in scena muovendosi in modo convulso e concitato, come una menade in felpa blu. Dal vivo i volumi dei bassi e la performance rendono molto più spettrali e luciferini i brani, che hanno un impatto ipnotico.

Mentre ormai Vasto Marina vista dalla Città alta è diventata una distesa di piccole luci all’orizzonte nel mare che si spalanca a strapiombo in lontananza alle spalle della Piazza, anche i Verdena, in un set piuttosto “tirato” nelle sonorità, suonano molto più aggressivi e corrosivi che su disco: non c’è ombra di dubbio dal vivo, oggi più che mai, sull’opzione della band a favore di sonorità possenti, figlie non solo del rock indipendente anni ’90, del noise o dello stoner, ma anche della psichedelia, dell’hard rock o di ascolti ancora più “heavy”. Quanti ogni tanto agitano lo spauracchio di una qualche deriva pop del gruppo sono facilmente smentiti da concerti in cui persino un brano come Scegli me (Un mondo che tu non vuoi), che condensa l’anima più vaporosa, soft e sognante dell’album Wow, guadagna veemenza e turgore. Non a caso uno dei brani del disco doppio che più permangono in scaletta anche in questo tour è un pezzo dalla partenza esplosiva come Loniterp, mentre Miglioramento suona oggi più virulenta e sferzante (e anche più anthemic); grandiosamente ‘70s e impetuoso è Lui gareggia. Anche i momenti più electro-rock o più saturi di distorsioni di Endkadenz vol. 1 suonano molto più maestosamente acidi e brucianti; d’altronde Luca Ferrari alla batteria è una macchina da guerra e certi momenti in cui si compenetrano tempeste di chitarra elettrica e colate laviche di basso hanno un’intensità orgasmica. Con l’impatto devastante che mostrano soprattutto dal vivo (quella live è chiaramente la dimensione più congeniale al gruppo, pur pregevole e inesausto sperimentatore in studio), i Verdena si confermano sempre più una delle rock band più solide e compatte d’Italia, in gran spolvero nell’infinita cavalcata di suoni de Il Gulliver, o tra le distorsioni e i vocalizzi urlati e liberatori di Don Calisto, uno dei pezzi preferiti di Alberto, al pari della ben più dilatata (pur a tratti apocalittica) e conclusiva Funeralus, quasi una via e un mezzo di fuga verso dimensioni altre. La band è comunque pienamente a suo agio anche nei rari pezzi più acustici del live, come Nevischio o durante la dolorosa, estatica piena emozionale della pur lieve Trovami un modo per uscirne (da Requiem). Di grande effetto sono anche la coinvolgente 40 secondi di niente, la ruvida Miami Safari, l’eclettica, vulcanica Puzzle e ovviamente il classico generazionale Valvonauta, un buono gratis per perdere di colpo 16 anni.

Le sonorità dei Verdena sono dure, ma mai granitiche o puramente muscolari: anche i momenti strumentali che potrebbero sembrare virtuosistici sono voragini torbide e madide di sudore, in cui la voce di Alberto Ferrari precipita gli ascoltatori tra le luci basse come una creatura delle tenebre, magari aliena, come i suonini space che a volte fanno da intervallo di assestamento e “riaccordamento” degli strumenti a un live senza un vero soundcheck (forse per la prima volta nella storia del gruppo). Se la Sammarelli ringrazia il pubblico con timida gentilezza ed è persino capace di salutare dopo un paio di pezzi con un “siamo i Verdena”, come se fossero ancora degli emergenti, il frontman del gruppo di Albino è un antidivo allucinato e schivo, con la sua figura dalla magrezza nervosa, simbolo fisico di una fragilità e una rabbia per sempre adolescente, pur tra le rughe d’esperienza un po’ maudit. Ha lavorato molto sulla sua voce che oggi è più matura e melodiosa, ma quella base ritmica da sanguinamento delle orecchie, quelle chitarre urticanti e venefiche sono il suo sfogo, la sua arma e la sua corazza. E quelle del pubblico dei Verdena.

A causa di un ritardo del suo volo, Jon Hopkins è rimandato in notturna dopo le 2, ma scalderà ugualmente una gremita Piazza del Popolo.

Uno degli ingredienti vincenti del Siren Festival è comunque la varietà di generi musicali a portata degli spettatori: c’è stato così spazio anche per set acustici come quello di Emma Tricca o di Scott Matthew, entrambi ospiti nell’angolo più raccolto e intimo, il Giardino d’Avalos. Il 25 luglio quest’ultimo, vestito con buffi calzettoni arancioni su degli stivaletti bassi che sembrano così i calzari di Mercurio, appare fin da subito simpatico, pacioso e dolcissimo, a dispetto della drammaticità che segna spesso le sue canzoni; scherza su qualche imperfezione o vuoto di memoria in un live che si svolge in un clima casalingo da secret show, chiede e ottiene un coro di un paio di persone come “in the popular songs” per il ritornello della sua avvolgente cover di I Wanna Dance With Somebody, oppure si scusa ridendo perché vorrebbe proporre canzoni più allegre, ma…non ne ha. In realtà abbastanza briosa sarà la conclusiva L.O.V.E., mentre, sempre tra le riletture di Unlearned che umilmente il songwriter mescola alle canzoni dell’ultimo album This Here Defeat, accorata e commovente risuona la radioheadiana No Surprise. I brani firmati da Matthew, invece, hanno una grazia delicatissima, dolente e malinconica, mentre la sua voce sofferta, al contempo sospirata e cavernosa è megafono di un pathos discreto, ma profondo ed elegante. Si ascolta in religioso silenzio il suo set voce e chitarra acustica (o voce ed ukulele, a seconda dei casi) e si applaude con calore sincero ed emozione.

Dal set minimale di Scott Matthew si passa a quello molto suonato di Colapesce, che invece è tra gli artisti che si sono esibiti nel palco di media grandezza del festival, quello del Cortile d’Avalos, adatto a un ascolto attento, ma anche ad atmosfere più festose e corali da club. La forza del live di Lorenzo Urciullo sono gli arrangiamenti, che allargano e stringono le loro maglie con pause e rallentamenti che preparano per il salto di cambi di ritmo e accelerazioni. Colapesce e la sua band sono d’altronde ottimi musicisti, mentre canzoni come l’ironica, divertente Maledetti italiani oppure la romantica Satellite sono brani ideali per accendere il pubblico che canta ogni parola. Languida e agrodolce suona L’altra guancia, ballabile è Reale, mentre Restiamo in casa si conclude con il lancio della setlist appena bruciata sulla scia del verso “Sento bruciare dei fogli”. Nel pomeriggio del 24 Colapesce aveva presentato in spiaggia con il coautore e mirabile disegnatore Alessandro Baronciani anche il libro La distanza, in uno dei dibattiti pure previsti nel programma.

I Pastels in Piazza del Popolo intanto il 25 luglio sono in ottima forma: incantano e cullano la piazza con le canzoni più sognanti, soprattutto quelle affidate alla voce della batterista Katrina Mitchell, che conserva la stessa candida dolcezza della gioventù; il gruppo scozzese per ironia della sorte non ha forse eguagliato la fama di molti epigoni, ma è stato una band così seminale e un precursore così geniale che le sue canzoni non sentono il peso del tempo, così come l’indie-pop arioso e fresco dell’album che ha segnato il suo ritorno dopo ben 16 anni, Slow Summits (2013), non ha per niente l’aria stantia di certi tentativi forzati di tornare in auge. Il cantato di Stephen McRobbie, ben meno pulito di quello della collega, ha un andamento cantalenante che ha fatto scuola (si pensi ad esempio ai concittadini Glasvegas) e un fascino “rough” che può ben spiegare come mai il gruppo piacesse a Kurt Cobain, mentre l’alternarsi delle due voci è la chiara matrice del binomio Stuart Murdoch/Isobel Campell dei più evidenti allievi di Glasgow, i Belle and Sebastian, che si sono ispirati anche ad una certa solarità garage declinata in salsa deliziosamente jangle pop del gruppo nato nel 1981. Insomma, i Pastels sono storia e ogni loro canzone, accarezzata dalla tromba o sfiorata dal flauto, è germe di un percorso, di una fioritura ampia e bellissima più di quella prodotta direttamente, che ispira moti di riconoscenza, orgoglio e affetto transgenerazionale.

In esclusiva nazionale l’ospite finale del 25 luglio, l’ultimo in Piazza del Popolo, è stato James Blake, che ha colpito per la concentrazione, la serietà, la perfezione e la professionalità del set. L’elettronica la fa da padrona, ma i ricami caldi della sua voce abbracciano gli spettatori in visibilio e scongiurano il rischio di un set troppo algido. La raffinatezza delle alchimie sonore è comunque evidente; la loop station cattura anche i cori del pubblico con un effetto quasi spettrale e straniante in I Never Learnt To Share. La straordinaria maturità di Blake, a dispetto dei suoi 26 anni, si nota anche nella cover iniziale di Hope She’ll Be Happier di Bill Withers, che mette in risalto le sue inclinazioni black; la grana densa della sua voce assesta spesso pugni nello stomaco degli ascoltatori. In scaletta ci sono momenti più rallentati e minimali, così come pezzi in cui i bassi danno le vertigini, soprattutto nelle prime file, ma anche allorché riecheggiano nella piazza immersa nella notte. Non manca neanche in scaletta Radio Silence, title-track del nuovo disco atteso entro la fine del 2015.

Vasto ha accolto in definitiva piccoli palpiti e tempeste di rabbia, elettronica raffinata e delicatezze folk, in una cornice preziosa come uno scrigno e con un programma che ha compreso anche molti altri artisti italiani e internazionali. L’evento, giunto alla seconda edizione, ancora meglio organizzata logisticamente e debitamente più promossa della prima, si conferma ormai una gloria nazionale, all’altezza dei più grandi festival stranieri, ma in uno scenario che tra arte e natura ha ben pochi paragoni.

Ambrosia Jole Silvia Imbornone

ph Giulia Razzauti

 

 

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