TIM HECKER Il guerriero romantico
Arriva in Italia in questi giorni TIM HECKER autore del disco dell’anno 2013 di Rockerilla.
19 settembre | Padova | Bastione Alicorno
20 settembre | Torino | Teatro Colosseo, ISAO Festival
21 settembre | Foligno (PG) | Dancity Nights, Spazio Zut!
24 settembre | Napoli | Basilica S. Giovanni Maggiore
La maggior parte dei suoi quarant’anni Tim Hecker l’ha passata studiando arte e musica: fin da piccolo a casa, grazie ai genitori, entrambi professori d’arte, e poi da grande con i canonici studi liceali e universitari da poco conclusi con un dottorato conseguito presso la McGill University di Montreal (con una tesi sull’urban noise). Motivo non sufficiente, ma forse necessario, per spiegare l’incredibile qualità delle sue produzioni musicali.
Che poi Tim Hecker sia anche un folle, un genio, uno squilibrato o un sacerdote zen lo si può pensare benissimo ascoltando uno dei suoi magnifici sette album pubblicati tra il 2001 e il 2013: Haunt Me, Haunt Me Do It Again (2001), Radio Amor (2003), Mirages (2004), Harmony in Ultraviolet (2006), An Imaginary Country (2009), Ravedeath, 1972 (2011) e Virgins (2013).
Il consiglio è quello di partire proprio da quest’ultimo, il meraviglioso Virgins, pubblicato dalla sempre stupefacente Kranky e disco dell’anno 2013 di Rockerilla.
Virgins è stato registrato tra il dicembre del 2011 e il novembre dell’anno successivo, tra Reykjavik, Seattle e New York. A differenza del passato Tim Hecker ha deciso di non fare tutto da solo e ha messo su una vera e propria band formata da musicisti incredibili: la pianista canadese Kara-Lis Coverdale; l’ingegnere del suono australiano (ma islandese d’adozione) Ben Frost; il clarinettista islandese Grímur Helgason; il compositore americano Paul Moore; e il produttore dalle mani d’oro – neanche a dirlo, islandese – Valgeir Sigurðsson. Ad aiutare i cinque performers, un’altrea manciata di tecnici strepitosi: Paul Corley, del giro della Bedroom Community, l’etichetta di Valgeir Sigurðsson, Nico Muhly e Ben Frost; Randall Dunn dei Master Musicians Of Bukkake; e la leggendaria Mandy Parnell, che si è occupata del mastering.
Già dalla copertina dell’album si è scossi da una strana sensazione: l’interno di una chiesa potrebbe donare sacralità al contesto, ma la disposizione degli oggetti da lavoro e la penombra ne ridimensionano l’impatto; l’attenzione poi cade inevitabilmente sul centro della scena, dove un lenzuolo ricopre una struttura che rimanda alle tragiche immagini dei prigionieri di Abu Ghraib.
In scaletta c’è anche un frammento di meno di due minuti che si chiama Incense At Abu Ghraib, posizionato dopo la meravigliosa sonata al pianoforte Black Refraction: si tratta di un lontano urlo di dolore, una sirena che risveglia le coscienze, il preambolo al sontuoso drone che segue, Amps, Drugs, Harmonium.
Nella versione dell’album in doppio vinile (pubblicata sia dalla Kranky che dalla canadese Paper Bag in un’edizione da non farsi sfuggire) siamo finiti esattamente sul lato C: rimettiamo il vinile nella busta e cambiamo disco, partendo dall’inizio.
Prism è un salto nel tempo: un vortice sonoro che dilata le quattro dimensioni con un gioco di specchi che acceca e disorienta. Senza soluzione di continuità un harmonium introduce la prima delle due Virginal in scaletta: timbri provenienti da un’epoca lontana trattati con il gusto e la sensibilità della scuola islandese; poi un didjeridoo prende a dialogare con l’armonium in una danza ancestrale. Il drone infine scivola tra le braccia della successiva Radiance, una sorta di omaggio ai classici dell’ambient music: per un minuto e mezzo il suono è tutto giocato sulle frequenze flautate di un organo trattato con chissà quali filtri, finché una sorta di gong risveglia i sensi prima della lunga coda.
Il lato B del doppio vinile è stupefacente. Live Room è tra i brani più rumorosi in scaletta: ognuno dei musicisti coinvolti nelle registrazioni sembra dare il proprio contributo all’improvvisazione (chi con schegge di pianoforti chi con riff super-disorti), dialogando con una sorta di drone portante eppure parlando lingue diverse; a metà corsa una melodia epica e melanconica allo stesso tempo ricopre ogni cosa avvolgendo l’orchestra di rumori che continuano a sentirsi in sottofondo. Il drone si immerge senza soluzione di continuità nell’ancor più commovente Live Room Out, una coda del brano precedente, con il clarinetto a donare un’aura tipica delle produzioni dell’ECM. Il lato B si chiude con Virginal II, come la prima parte, retta da una melodia suonata all’harmonium, alla quale si sommano, come strati, i suoni di altri indefinibili strumenti in una sorta di estasi che nella coda sembra omaggiare i capolavori del giovane Terry Riley.
Il Lato D è quello dove l’elettronica diventa più riconducibile ai codici della scuola islandese: morbide basi di silicio increspate da un arrangiamento comunque ricco di timbri (Stigmata I e Stigmata II). Decisamente più spacey l’atmosfera della conclusiva Stab Variations, un finale mozzafiato per un capolavoro imperdibile.
Tim Hecker comincia a pubblicare musica nella seconda metà degli anni 90 con l’alias Jetone, vivendo da protagonista il passaggio nell’evo digitale. Dalla Germania la moda del glitch è sbarcata anche oltreoceano. Ne risentono i primi due dischi a nome Jetone ma anche i drones finiti poi su Haunt Me, Haunt Me Do It Again, (2001) che già dal titolo tradisce la vicinanza alla fertile scena post-rock canadese. In effetti l’album è figlio del suo tempo e fotografa molto bene quell’attitudine a mescolare post-rock ed elettronica diffusa al tempo anche in Europa (Fennesz). Tim Hecker mette insieme una montagna di frammenti in medley che mescolano rumore e melodia, seguendo le direzione del post-shoegaze della Kranky. Una chitarra elettrica, un pianoforte e l’immancabile laptop sono gli strumenti che bastano al musicista canadese per registrare il primo album pubblicato con il so nome di battesimo. A stampare il disco è la Substractif, sotto-etichetta della gloriosa Alien8 di Montreal. Quella prima edizione oggi vale più di duecento dollari.
Nel 2003 arriva il primo capolavoro di Tim Hecker Radio Amor, pubblicato dalla Mille Plateaux. Il musicista canadese è già diventato un maestro nel far emergere melodie da matasse di rumore. Un’arte antica che Hecker personalizza grazie ad un utilizzo totale dello spettro sonoro. Il disco si apre con i suoni di una radio alla deriva che si infrangono su una frase di organo elettrico che potrebbe essere stata rubata ad un disco di Terry Riley (Song Of The Highwire Shrimper). Senza soluzione di continuità ci si immerge nel successivo drone, (They Call Me) Jimmy, e sembra di ascoltare l’eco di un concerto di O Yuki Conjugate e My Bloody Valentine su di una spiaggia desolata. La stampa originale di Radio Amor è introvabile.
Per il successivo Mirages (2004) Hecker torna su Alien8. Il rumore acquista sempre più spazio nelle sue composizioni, mai come in questo album vicine all’idea di post-shoegaze. Concetto che nel vocabolario di Hecker vuol dire far balenare riff metal su distese iper-romantiche di sintetizzatori. Chitarre distorte e feedback manipolati elettronicamente sono il filo conduttore di tutti e undici i brani in scaletta, che in effetti costituiscono un unico lungo racconto da ascoltare senza soluzione di continuità dall’inizio alla fine.
Tim Hecker ha ormai un suo suono riconoscibile immediatamente. Eppure ogni suo album è diverso dal precedente. Così il meraviglioso Harmony in Ultraviolet (Kranky, 2006), una sorta di versione ancora più nebbiosa del precedente Mirages. Il feedback regna sovrano su tutti e quindici i frammenti in scaletta. Sono scomparsi quasi del tutto quegli acquarelli bucolici, spesso suonati al pianoforte, con cui Hecker aveva interrotto la tensione sui dischi precedenti. Harmony In Ultraviolet è il racconto di un’unica nottata passata a scappare dai propri fantasmi interiori. Un saliscendi emozionale fortemente suggestivo. Il corrispettivo astratto e speriemntale delle sinfonie melanconiche di Mogwai e Sigur Ros. Le due Whitecaps of White Noise in coda alla scaletta rappresentano un incredibile gran finale, enfatizzato da un maestoso organo suonato da Jonathan Parant (Fly Pan Am).
L’immagine di copertina di An Imaginary Country (Kranky, 2009) contiene dettagli dell’opera Montreal Crater, Vimy Ridge di David Milne del 1919 (il riferimento è ad una feroce battaglia che si tenne durante la prima guerra mondiale vicino a Vimy, in Francia, dove un numero ancora imprecisato di canadesi perse la vita). Lo stesso riferimento della prima traccia in scaletta, 100 Years Ago, un sussulto di sintetizzatori che lentamnete si intrecciano per creare un tappeto che diventa l’atmosfera portante dell’inetro disco. Dopo tanto rumore Hecker è tornato a dipingere il silenzio: Sea Of Pulses sono quattro minuti di venti elettronici ascenzionali a gravità zero. Poco è rimasto della carica aggressiva contenuta nel precedente Harmony In Ultraviolet. Eccezione che conferma la regola l’imponente cattedrale di suono costruita sul finale che lega assieme Where Shadows Make Shadows e 200 Yaers Ago.
Dopo due anni Tim Hecker torna con un lavoro concettualmente diverso, registrato all’interno di una chiesa a Reykjavík, in Islanda, con l’aiuto di Ben Frost: Ravedeath, 1972 (Kranky, 2011) è stato scritto per computer, pipe organ, sintetizzatori, pianoforte e chitarra elettrica. A differenza del precedente album del musicista canadese il nuovo lavoro è più suonato: è scomparsa del tutto la vena pastorale per far posto ad un’oscurità già contenuta nei titoli delle tracce dell’album. Lentamente Hecker dispiega i suoi strumenti per costruire piccole cattedrali di suono dall’impatto comunque maestoso. Studio Suicide, 1980 ha un crescendo quasi space-rock, con l’organo ad indicare la rotta. Sono i primi passi di quel cambiamento che porterà alla coralità di Virgins.
Roberto Mandolini (tratto da Rockerilla 400 | Dicembre 2013)