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The DrumsThe Drums

 

Portamento

Moshi Moshi

Il cantante Jonathan Pierce: “Portamento è un termine italiano che indica il periodo di transizione tra una nota e l’altra, come una transizione per noi è stato il periodo trascorso tra il primo e il secondo album”. E sul disco: “Questo album parla un po’ di tutto, dalla mia infanzia profondamente religiosa al transgenderismo, passando per la violenza, senza ovviamente tralasciare una buona dose di romanticismo, dal quale non riesco a staccarmi nonostante sia un po’ stanco”. Basterebbe questo a descrivere lo stato emotivo e di coscienza che ha portato la band alla realizzazione del secondo album. Tastiere e synth per il nuovo chitarrista Jacob Graham il tutto condito da una immancabile verve new-wave e “surf-pop”. Ingredienti rivisti e corretti per sbarazzarsi del look sbarazzino e affrontare di petto le evoluzioni cordiali di una band da serio-liceale. “Hard To Love” schiaffeggia con dolcezza tra synth e piedino in movimento, ma è in “Searching For Heaven” che si compie il miracolo: quasi tre minuti di cupa melodia elettronica tra progressive italiana anni ’90, un Moroder depresso e miagolii da strapazzo made in heaven by J. Pierce. La forza del cambiamento che è pur sempre crescita, evoluzione, modellamento, sensibilità verso gli altri mondi un tempo ripudiati ma oggi sempre più parte del tutto. Come nella Musica, tutto muta tutto si reinventa. Un disco fuori dal tempo che è già passato ancor prima di diventare presente.

Matteo Chamey

 

RAGIONE E SENTIMENTO

Jonathan Pierce è un tenebroso romanticone. Le sue parole sono la circostanza solare di una esistenza ombrosa, un viale alberato in cui rifugiarsi per riflettere o solo per capire cosa sta accadendo alla propria realtà. Non sopporta quella fastidiosa etichetta di “surfing band” ma quando un brano suona troppo per le radio c’è sempre un’insidiosa motivazione che sfugge alle regole del buon senso, marchiando in eterno il proprio nome con epiteti da tornaconto aziendale. Indie-rock? Ormai per fare capolino dalla melma politica del business tutto ciò che suona indie pare un’avanguardia musicale strepitosa, The Drums suonano come gli pare e nel nuovo “Portamento” l’elettronica si fa largo orgogliosamente oltre gli stereotipi e i classici inquadramenti di genere. Goat Explosion è il nome della prima band, Jacob Grahaman (alla chitarra) ne fa parte allora come oggi, formando un legame di amicizia e collaborazione inizialmente poggiato sulla colonna portante dell’electro-pop. Nonostante l’amore spassionato per i sintetizzatori (che insieme a certi testi sdolcinati va d’amore e d’accordo) il duo preferisce sterzare su più consone influenze “alternative”: The Smiths, Joy Division, The Wake, The Zombies. La sensazione, oggi come allora, di trovarsi di fronte ad una vera rivelazione, si scontra con l’autonoma scelta di non voler fare troppo sul serio pur prendendo le distanze da una visione pop sbarazzina. Che accade nel 2011? L’intraprendenza, il sentimentalismo, la rivendicazione di sonorità elettroniche (Jacob è tornato al suo amato synth) ha trasferito il desiderio di equilibrio sul ponte delle nostalgie vintage. Le canzoni “da diario” sono un libro semi-aperto alla ricerca di consensi visionari reconditi. Sfuggevoli e consapevoli o solo un po’ confusi? Identità multipla o ricerca sperimentale? Difficile inquadrarli al di fuori delle loro esperienze personali, semplice bannarli dalle classifiche UK (un tempo a loro devote). Questa non è una storia di coraggio, di business, di produttori ed etichette che variano nel tempo, Jonathan e Jacob sono due ragazzi che trasferiscono la propria crescita sulle note instabili della musica. Una instabilità emotiva (nei testi), strumentale (post-punk ed elettronica) ed esistenziale (non c’è un domani, c’è solo l’oggi). The Drums non suonano apocalittici, rivelatori, post-qualcosa, ma nemmeno pop-mtv, pop-festival e quant’altro. Forse l’indecisione gioca un ruolo inconsapevole, forse si nascondono nell’insicurezza per trovare certezze. Searching For Heaven (ne riparlo nell’intervista) non è una perla di casualità nell’oceano della visceralità, ma l’antro cupo di un disco che suona con circospezione, spiazza senza aprire varchi di musicalità inesplorata. In Days ci sono The Smiths ma anche J. Pierce e J. Grahaman, in altri brani i Joy Division nella loro versione più spensierata. Non sono le uguaglianze o differenze a stupirci/distrarci ma la visione dell’insieme, edulcorata senza fare indigestione, amarognola senza intossicarci. In Money sembra esserci un non-indiretto riferimento alla crisi economica: “voglio comprare qualcosa ma non ho soldi”, “prima di morire mi piacerebbe fare qualcosa di bello”. Concetti banali, da ragazzini senza cervello? Forse, ma non racchiudono la sfiducia nel mondo? La mancanza di certezze per il futuro? La volontà di fare del bene e sentirsi costretti a non giocare un ruolo importante nella Società dei Soldi? Probabilmente è la classica canzoncina che si scrive in un certo modo per farla suonare in un certo modo e siamo qui a scervellarci per niente. Maybe…

 Su Rockerilla di ottobre l’intervista di Matteo Chamey ai Drums.

 

 

 

 

 

 

 

 

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