THE AFGHAN WHIGS | Intervista
A distanza di 16 anni dall’ultimo album degli AFGHAN WHIGS il 14 aprile esce in Europa ‘Do to the Beast’.
Su Rockerilla 404 | Aprile potrete leggere la monografia dedicata alla band; dello stesso autore (Enrico Iannaccone) vi proponiamo qui l’intervista a Greg Dulli.
LA VITA CI CAMBIA CONTINUAMENTE
La lieta sorpresa di un nuovo album degli Afghan Whigs dopo una lunghissima pausa è un’occasione troppo ghiotta per farsi sfuggire l’opportunità di una chiacchierata telefonica con il frontman Greg Dulli. L’inevitabile emozione del sottoscritto, cresciuto (e purtroppo ormai invecchiato) nell’adorazione di capolavori come Gentlemen e Black Love, viene immediatamente dissolta dall’estrema gentilezza e disponibilità del musicista, la cui voce leggermente impastata testimonia che in fondo a Los Angeles sono appena le 11 del mattino, praticamente l’alba per il ragazzaccio scavezzacollo che abbiamo imparato a conoscere attraverso le sue intense ed appassionate confessioni autobiografiche in forma canzone. Rompiamo il ghiaccio partendo ovviamente dalla nuova raccolta.
Do To The Beast è una sorta di riassunto della tua ormai lunga carriera, un lavoro che mette insieme Afghan Whigs e Twilight Singers aggiungendovi qualche sperimentazione sonora come l’alt-country di Algiers…
Sono una persona molto diversa rispetto ai tempi di 1965. Negli ultimi sedici anni ho continuato a fare album con i Twilight Singers, con il mio amico Mark Lanegan e ho suonato a lungo con gli Afterhours: Do To The Beast è il frutto di tutte queste esperienze. Dopo Dynamite Steps, uscito nel 2011, ho lavorato su suoni differenti, incontrato persone che non conoscevo e sperimentato nuove collaborazioni: la vita ci cambia in soli tre anni, figuriamoci in sedici.
La defezione di Rick McCollum, chitarrista e membro fondatore degli Afghan Whigs, ti ha dato la possibilità di sperimentare un approccio musicale diverso da quello “classico” della band: pensi comunque che in futuro sarà possibile collaborare di nuovo con lui?
Sul disco accanto a me si alternano molti chitarristi: Jon Skibic, Dave Rosser, Mark McGuire, Johnny “Natural” Najera, Clay Tarver, Dave Catching… credo che il contributo di persone diverse abbia conferito all’album una varietà di suoni più ampia. Riguardo eventuali future collaborazioni con Rick, tutto è possibile: lui ha qualcosa su cui lavorare nella sua vita, è un mio amico, gli voglio bene, spero che riesca a risolvere i suoi problemi e andare oltre i fantasmi che lo perseguitano. Purtroppo questa volta non ho potuto aspettare.
I tuoi lavori sono spesso strutturati come dei concept album: c’è un filo conduttore anche in Do To The Beast?
Non credo sia proprio un concept, è più come una reazione alla vita che ho avuto negli ultimi quarant’anni. Ognuna di queste nuove canzoni è un pezzo di me, quella che probabilmente sento più vicina è Lost In The Woods.
Ascoltare un nuovo album degli Afghan Whigs è come rivivere un tempo perduto nel quale tutti noi eravamo ancora giovani e pieni di vita. Sono passati oltre vent’anni (e un millennio!) dall’epoca di Congregation e Gentlemen: cosa rimpiangi di quei giorni e cosa ti sei lasciato volentieri alle spalle?
In Do To The Beast penso di aver messo molto della mia parte più innocente. Suonare di nuovo con John (Curley, bassista e socio fondatore della band, ndr) mi ha fatto tornare indietro nel tempo: siamo amici da quando avevamo diciannove anni e quando conosci qualcuno da così tanto hai fiducia e ti senti a tuo agio. Abbiamo esplorato suoni diversi, ma ho anche ricordato molti episodi del mio passato che avevo totalmente rimosso. Da giovane ho fatto un sacco di cose autolesioniste, ricordi che avevo volutamente lasciato alle spalle… credo davvero che quest’album sia il riflesso e la celebrazione della vita che ho vissuto da quando sono qui. Questa è la risposta migliore che posso darti.
Ricordo una tua vecchia intervista nella quale raccontavi dei tuoi problemi di depressione e attacchi di panico con la stessa sincerità che traspare dai testi delle tue canzoni: per te non c’è separazione tra musica e vita reale?
Le mie canzoni mi aiutano a capire meglio i miei pensieri che, a volte, possono essere complessi e opprimenti finchè non li metto su un pezzo di carta. La scrittura delle canzoni è diventata per me una sorta di terapia, una catarsi, un modo per far uscire tutto ciò che ho dentro.
Sei amatissimo in Italia e spesso nostro gradito ospite: sbaglio o parli anche un po’ la nostra lingua?
Quando nel 2005 ho partecipato al tour degli Afterhours ho preso delle lezioni di italiano, ma a Milano tutti volevano parlare in inglese e non sono riuscito a fare molta pratica. Diciamo che nove anni fa me la cavavo, adesso purtroppo ho dimenticato tutto.
Ormai conosci bene il nostro paese, del quale, come tutti gli americani, immagino apprezzerai il cibo, la moda, l’arte e, conoscendoti, le belle donne. Provo ad invertire una domanda che ti avranno già fatto tante volte: cosa proprio non ti piace dell’Italia?
Sai cosa? Non c’è davvero niente che non mi piaccia. Vengo in Italia da venticinque anni ed è assolutamente uno dei miei posti preferiti sulla terra. Sono stato ovunque nel tuo paese, suonandoci con la mia band e a lungo con il tour di Ballate Per Piccole Iene, e la mia esperienza è stata davvero unica: vi ho trascorso i momenti più belli della mia vita e ho conosciuto tanti amici.
Proviamo a ripercorrere la storia degli Afghan Whigs, iniziando dal vostro debutto, Big Top Halloween: pensi che verrà finalmente ristampato?
No Enrico, quell’album è terribile!
Beh, sì, è un lavoro sicuramente molto acerbo, però è anche un raro oggetto per collezionisti che su eBay raggiunge quotazioni elevatissime…
Ce ne sono solo mille esemplari al mondo. Nemmeno io ce l’ho, mia madre ha la mia copia.
Di Up In It cosa mi racconti?
Credo davvero che quell’album sia stato realizzato con troppa fretta. Quando lo abbiamo registrato abbiamo fatto molta attenzione agli altri gruppi della casa discografica (Sub Pop, in piena epoca grunge, ndr) e l’album è stato modellato sulla base di un certo sound. Non che sia un disco poco sincero, ci sono un paio di canzoni che amo ancora… You My Flower, I Know Your Little Secret…
Nella monografia sugli Afghan Whigs che ho scritto per Rockerilla ho definito Up In It “l’album grunge di una band che paradossalmente con il grunge ha ben poco da spartire”…
È esattamente così. Quando abbiamo inciso Up In It avevo scoperto gruppi come Fluid, Tad, Mudhoney, Nirvana: mi piaceva molto la loro musica e l’ho riversata in quello che stavo facendo. In realtà, però, gli Afghan Whigs sono nati davvero con Congregation, quello fu l’album con cui siamo diventati la band che volevo fossimo.
Congregation è stato decisamente il disco della svolta…
Si, credo davvero che con lui sia nato il sound degli Afghan Whigs. Abbiamo cominciato a suonare canzoni più lente, ha iniziato a farsi strada l’influenza soul, insieme al country-western. C’era anche la cover di Temple da Jesus Christ Superstar…
La copertina di Congregation, opera di John Curley e del fotografo D.A. Fleischer, è probabilmente una delle più belle della storia del rock…
Si, l’immagine è stata realizzata a Cincinnati. La ragazza, Tamika, viveva nella nostra strada ed era una buona amica, mentre la bambina era proprio la figlia di Fleischer: credo che la foto sia stata scattata nel suo giardino.
Arriviamo così al capolavoro Gentlemen…
Congregation e Gentlemen sono stati incisi uno dopo l’altro, nell’arco di soli diciotto mesi: è stato il periodo più prolifico per la nostra band. Le canzoni di Gentlemen sono state scritte in tour: What Jail Is Like in Spagna, Be Sweet in Francia, la title track in Florida. Le scrivevamo, le imparavamo e le provavamo immediatamente nei soundcheck per suonarle durante i concerti, anche senza le parole. Registrammo Gentlemen a Memphis in sole due settimane. Quel disco è la fotografia di un periodo della mia vita: ero molto triste, confuso, arrabbiato… sensazioni che sono sicuro tutti gli uomini provano a ventisette anni.
Per il ventennale di Gentlemen dello scorso ottobre mi sarei aspettato una bella ristampa deluxe con inediti… come mai non ci avete pensato?
Per questioni legali: quell’album è stato prodotto da tre diverse case discografiche e la cosa è un po’ complicata. Ci stiamo lavorando adesso, chissà, forse la ristampa arriverà per il ventunesimo anniversario. Penso ci sarà qualcosa che i fan non hanno mai ascoltato: John Curley ha i demo e ci sarà sicuramente qualche registrazione live. Ti dirò di più, il sound dei demo è stranamente simile alle registrazioni e credo dipenda dal fatto che suonavamo le canzoni ogni sera prima di registrarle. Il risultato di un simile procedimento è un album unico. Scrivevamo le canzoni on the road e le suonavamo direttamente durante gli show. Il disco ha un’energia che non sarei mai capace di riprodurre in circostanze diverse.
Eccoci a Black Love, probabilmente il vostro disco più sottovalutato, secondo me un capolavoro al pari di Gentlemen…
Mettiamola così, Enrico: quando programmavamo la scaletta durante il reunion tour degli Afghan Whigs alla fine ci dicevamo sempre: “Ragazzi, suoniamo quasi tutte le canzoni di Black Love stasera”. Credo proprio che questo faccia capire come quello fosse il nostro album preferito.
Black Love è strutturato come una sorta di soundtrack di un film noir: conosci le colonne sonore del cinema di genere italiano degli anni 70? Molte cose dovrebbero piacerti parecchio…
Ho ascoltato diverse soundtrack con gli Afterhours. Da ragazzo adoravo quelle dei film di Dario Argento ed ero un grande fan dei Goblin. In alcune canzoni dei primi Twilight Singers ci sono campionamenti da Profondo Rosso e Suspiria.
E infine siamo giunti a 1965…
1965 parla del periodo della mia vita nel quale avevo superato la depressione e scrollato di dosso l’oscurità: è un album di celebrazione, il più gioioso che abbia mai realizzato. Mi ero appena trasferito a New Orleans, in una nuova città, un’esperienza di totale rinnovamento. Mi sentivo un’altra persona, finalmente felice: ascoltavo moltissimi album dei Rolling Stones e abbracciavo letteralmente le gioie della vita. 1965 è un disco molto speciale per me.
Una domanda classica: i tuoi cinque album preferiti di sempre…
Oh mio Dio! Fammi pensare… cinque album… oh boy, è difficile! Cominciamo con Let’s Get It On di Marvin Gaye…
Curiosa coincidenza: qualche mese fa ho fatto la stessa domanda a Mike Scott dei Waterboys e anche lui, per primo, mi ha citato lo stesso disco…
Ah, i Waterboys… li ho visti dal vivo nel 1984, quando facevano da spalla agli U2… gli altri quattro dischi potrebbero essere Let It Bleed dei Rolling Stones, Purple Rain di Prince, Sketches Of Spain di Miles Davis e per ultimo ti dico Padania degli Afterhours.
Ultima domanda sui tuoi progetti futuri: Afghan Whigs, Twilight Singers, Gutter Twins… o semplicemente Greg Dulli?
Sto lavorando su un nuovo album con Mark McGuire, eccezionale chitarrista e grande amico: inizieremo a registrare quest’estate. Non so come lo chiameremo, per il momento è solo un progetto “Greg Dulli Mark McGuire”.
Grazie a Luca De Iasi e Francesca Romana Viscido