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Tame Impala – Deadbeat

Deadbeat (Columbia)

Il percorso di Kevin Parker è una delle traiettorie più singolari del rock contemporaneo. Nato in Australia, con alle spalle separazioni familiari, un’infanzia segnata da solitudine e un presente accompagnato da beta-bloccanti, oggi è il produttore in camicia di seta su cui tutti puntano. Eppure, ascoltando questo Deadbeat, emerge ancora un’eco di disagio. Come se la luce accecante dei riflettori, acuita da hit come la collaborazione con Dua Lipa, avesse ulteriormente offuscato l’equilibrio. “Deadbeat è la sensazione di essere indietro nella vita e nel mondo, di essere un drop-out”. Così Tame Impala sceglie di descrivere sinteticamente il titolo di un disco che, per chi l’ha seguito dagli esordi underground – magari dai tempi del Mojotic Festival di Sestri Levante – di certo non tradisce. Al massimo potrà suscitare un leggero fastidio per l’hype imponente che ha generato; una smania mediatica frastornante, simile a quella che accompagnò gli Strokes prima del loro secondo album. La nota stampa insiste sul concept: un’opera costruita sull’imperfezione deliberata, ispirata al wabi-sabi, l’estetica giapponese che esalta la bellezza dell’incompiuto.

L’apertura con My Old Ways sembra in effetti andare in questa direzione, con il suo pianoforte riverberato su cui appoggia un falsetto fragile che sussurra confessioni crude (“always fucking up”). Con Dracula l’ansia diventa inno synth-pop, mentre in Loser l’impronta chitarristica rievoca la spavalderia degli Arctic Monkeys. Liricamente, il disco mappa la stanchezza millennial: disillusione ciclica, malinconia quotidiana e automedicazione nella festa. Musicalmente invece le numerose divagazioni stilistiche mettono in luce la versatilità di Parker: Piece of Heaven e Obsolete esplorano un R&B anni ottanta, mentre Oblivion si inoltra con sfacciata naturalezza in territori quasi-reggaeton. E poi c’è un corposo nucleo di cassa in quattro, che pulsa in Ethereal Connection e End of Summer, entrambe oltre i sette minuti di techno ipnotica e in Afterthought, con quell’irresistibile basso alla Thriller. In sostanza, Tame Impala sposta il suo mondo psichedelico dal rock verso nuove dimensioni. Quello che sembra un azzardo è l’esito di un artista maturo, capace di fondere generi agli antipodi in un unico pattern coeso: amplificatori vintage, timing rilassati, drum machine elaborate e sbavature volute. Un album che non ricerca il consenso: chiede solo di vibrare, di perdersi nella musica. L’opera di un uomo che, a trentanove anni e con una famiglia, si concede il lusso di fare solo ciò che desidera.

Gianluca Servetti

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