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TAME IMPALA

Let It Happen di Paolo Dordi

Questo nuovo anno, con il suo suono tondo e morbido, si è lasciato alle spalle l’idea di un traguardo che appariva lontanissimo e che aveva liberato definitivamente l’immaginazione. L’ingenuità di certe previsioni del passato oggi ci fa sorridere. Eppure il duemilaventi scorre velocissimo e si lascia dietro l’ennesimo tentativo di scorgere qualcosa di più ampio che il semplice susseguirsi di eventi. Lasciamo perdere la complicata geopolitica attuale, le sue frange mimetizzate e mutevoli e la totale ignoranza di certi attori attivi e restiamo sul pianeta che conosciamo meglio: la musica. In questi giorni le liste di fine anno si fanno più coraggiose del solito e provano ad allargarsi all’intera decade, se non addirittura al millennio. L’ansia di recuperare qualcosa andata colpevolmente in fumo si contrappone alla quantità di musica che oggi abbiamo a disposizione: impossibile ormai stare dietro a tutto. Difficilissimo scorgere oggi qualcosa che duri più di una stagione. Rischioso scorgere una tendenza qualsiasi capace di leggere la realtà. In un momento in cui il presente si vaporizza e il futuro prossimo resta sospeso in una enorme bolla opaca (e inquinata!) ha senso gettare uno sguardo al passato, raccogliendo una suggestione tra le tante.

Il 28 gennaio 2016 Rihanna, dopo una complessa campagna web e social, ha anticipato per una settimana soltanto sulla piattaforma Tidal il suo nuovo album, Anti. Scorrendo i titoli e guardando la lunga lista di collaboratori e produttori, ci si imbatte in una canzone già sentita altrove. Si intitola Same ’Ol Mistakes ed è una cover. L’originale si chiama invece New Person, Same Old Mistakes ed è la traccia di chiusura di Currents, il terzo disco dei Tame Impala. Le due canzoni si somigliano moltissimo: la lunghezza intanto, con l’originale che supera i sei minuti e la cover capace di spingersi ancora oltre; la tonalità, che è esattamente la stessa, il procedere insidioso del basso, i cori che rimbalzano nel finale. Una è più subdola, l’altra più invadente; una più sensuale, l’altra più sonnecchiosa. Un paio di contatti tra i rispettivi management e stima reciproca, non era servito altro. Caso isolato? Non proprio: Solange ha pescato dalla discografia dei Dirty Projectors prima di accompagnare – con Bejoncé – Jay-Z a un concerto dei Grizzly Bear; Kanye West ha plasmato il lavoro di Justin Veron, Mr. Bon Iver, in un lungo soggiorno alle Hawaii. Lo stesso, timidamente, sta capitando anche dalle nostre parti, dopo l’inevitabile scrematura della multiforme scena it-pop.

Insomma, sembra che la separazione (la distanza, la cautela, la titubanza) tra indie-rock, hip-hop e pop (più o meno mainstream) si stia sempre più assottigliando. E nella storia dei Tame Impala o per meglio dire, di Kevin Parker, nelle sue frequentazioni laterali, nella felice dicotomia tra lavoro solitario in studio e, con una band vera e propria, festival modaioli affollati, nelle apparizioni televisive, c’è qualcosa di tutto questo. O meglio: c’è quella contaminazione perfetta dei suoni che meglio hanno rappresentato questi anni. I synth degli anni ’80, un pop psichedelico fruibile e sonnecchioso che ha superato indenne il lungo percorso iniziato (per semplificare) con i Beatles e passato attraverso dozzine di band dagli esiti più o meno fortunati. Perfino la provenienza geografica – Parker è nato e cresciuto a Perth – è stata decisiva per mantenere una certa distanza dai due oceani e per intraprendere un percorso musicale proprio.

La storia dei Tame Impala non è diversa da mille altre, con le prime canzoni scritte con un paio di amici rinchiusi in un garage senza nessuna idea chiara sulla direzione musicale da seguire. Fin dall’inizio tutto ruotava intorno a Parker, che cesellava ogni singola parte musicale completamente da solo prima di condividerla con i membri della band per i concerti. Parker aveva cominciato a scrivere canzoni per combattere la solitudine di una famiglia andata in pezzi. Il padre suonava in una cover band senza pretese e Kevin si ritrovò sul palco con una chitarra a tracolla a poco più di dieci anni. Le prime canzoni nascono allora, con due registratori amatoriali e le sovraincisioni di batteria, chitarra e tastiere. Appena più tardi riceve dal padre un otto tracce per il suo compleanno: aveva già intravisto qualcosa in quel ragazzino schivo. Parker cominciò a scrivere tutte le notti ossessivamente, caricando su My Space le prime canzoni finite. A una carriera da astronomo preferì la musica, decidendo di dedicare tutte le energie alla sua band, i Dee Dee Dums, poi diventati Tame Impala, con Dominic Simper al basso e Jay Watson alla batteria. Non passa troppo tempo prima che questa band dal suono atipico, seppure ancora grezzo, cominci a far parlare di sé. La prima etichetta a farsi avanti è la Modular Records, con la richiesta di ascoltare qualcosa di più corposo rispetto a quanto condiviso online. Parker invia un demo con venti pezzi che in breve comincia a circolare tra gli addetti ai lavori. Arrivano altre offerte ma Parker resterà fedele alla prima etichetta seriamente interessata alla sua musica.

Nel 2008 finalmente viene pubblicato il primo EP eponimo e in breve i Tame Impala si ritrovano come backing band nel tour australiano degli MGMT. Di fronte alla concreta possibilità di affermarsi e fare il musicista a tempo pieno (questione che aveva portato a lunghe discussioni in famiglia), Parker si rinchiude in un casolare e comincia a lavorare duramente. Pensa a tutto lui: suona gli strumenti, scrive i testi, registra voci e cori, produce e arrangia. Dopo tanto lavoro nel 2010 viene pubblicato Innerspeaker e la band fa subito centro. Lunghi ronzii psichedelici, riff assetati, la voce fantasmatica di Parker e l’apparente facilità con la quale la band riesce a veicolare melodie imperfette e magnetiche sono le carte vincenti. La regia del mix è affidata alle sapienti mani di David Fridmann, capaci di tenere compatta la forza inespressa dalla band senza cedere ad alcun tipo di protagonismo. I riferimenti del passato sono chiarissimi ma il carattere schivo di Parker, la sua assoluta sincerità emotiva e una scrittura sapiente rendono Innerspeaker un album perfettamente riuscito.

Andando più in profondità, basta ascoltare Solitude Is Bliss (praticamente una epifania) con il suo piglio ruffiano e il groove avvolgente per capire le qualità di queste canzoni. Brani che sembrano uscire da Nuggets e che invece si aggrappano ostinati al presente. Intimità, sensibilità, coerenza: sono parole usate spesso a caso, altrove. Qui trovano una realizzazione piena.

Se già Innerspeaker ci aveva convinti, Lonerism ci porta ancora più lontano. C’è maggiore equilibrio tra synth e chitarre, un songwriting devoto a melodie contagiose, una sapiente costruzione degli intrecci vocali. Parker ha sfruttato il tempo a disposizione (quasi due anni) per sperimentare e costruire trame melodiche che paiono incastrarsi con sorprendente semplicità. Si riconosce una ossessione per la ricerca della canzone perfetta, forse per scrollarsi di dosso le prime scomode etichette (retro-pop, indie-rock, psych-qualcosa e così via) che rifiuta da sempre. Anche perché la musica dei Tame Impala comincia a seguire percorsi laterali e a risvegliare apprezzamenti inattesi. Così è capitato che Kendrick Lamar si mettesse al lavoro per una sua versione di Feels Like We Only Go Backwards per la colonna sonora del film di culto Divergent mentre Parker affermava di avere un intero album pronto per Kylie Minogue e si metteva al lavoro su una manciata di canzoni del nuovo album di Mark Ronson, uno che aveva già vinto un grammy per la produzione di Back To Black di Amy Winehouse. La cosa singolare è che il mainstream luccicante e questo psych rock hanno trovato un linguaggio comune sconosciuto ai più senza cambiare un granello del tessuto di queste canzoni. Pensiamo al nostro Dardust, capace di scrivere per altri il miglior pop in circolazione restando nell’ombra (con il suo vero nome!) e utilizzando il suo moniker per i suoi dischi di elettronica sinfonica tambureggiante. Con Parker il discorso è differente: le sue canzoni piacciono a tutti e non ha bisogno di niente che non stia già sui suoi dischi. Così l’improbabile trova un senso: da un lato la sua musica è candidata a vari best alternative, dall’altro lavora con Lady Gaga e Mick Jagger. L’utilizzo massiccio dei synth gli aveva permesso di allargare la ricerca sonora (sempre rigorosa e maniacale) ad una platea pubblica e privata molto più ampia così Currents (del 2015) mostra immediatamente il verso del lungo lavoro di scrittura svolto da Parker. La direzione è limpida, con le chitarre che arretrano ancora per lasciare spazio ai synth e a una voce spettrale. Currents diventa immediatamente un classico. Parker è più maturo, se possibile ancora più attento in fase di costruzione dei brani. Possiamo chiamarla ossessione, ma il pop dei Tame Impala cerca la perfezione. È tutto chiaro già dalla prima traccia, Let It Happen: una linea di synth che fa l’occhiolino a Stardust e Daft Punk accoglie la voce eterea di Parker, con una linea melodica consolidata. Poi i synth si acchiappano, cambiando velocemente il disegno sullo sfondo. Su uno stacco geniale la canzone sembra incepparsi per qualche secondo. Invece è il preludio di una trama tutta nuova che cresce inesorabile e conduce la melodia altrove. Soltanto alla fine si capisce il trucco, quando la progressione melodica si riavvicina ai primi secondi del pezzo e si accoglie con fulgore. In questi sette minuti si riconosce una genialità indiscutibile con le stratificazioni dei synth e ogni singolo battito armonico incassato nel posto giusto.

Tutto questo non può essere frutto del caso: Parker lavorava ogni giorno per tutto il giorno, concedendosi al massimo qualche bagno nell’oceano. La strumentazione ridotta al minimo lo obbligava ad ottenere il massimo da quel poco che c’era a disposizione, secondo lo stesso approccio descritto da Jack White per il suo ultimo disco. Ma tanta ostinazione per i dettagli e un isolamento spinto fino al limite del proprio equilibrio ci ha regalato un disco davvero memorabile. Una volta pubblicato, tanta ricchezza emotiva nemmeno traspare. Così a un ascolto spensierato potrebbe stupire sapere che per alcune piccole tracce vocali Parker abbia registrato oltre 1000 settori (e parliamo di pochi secondi, non dell’intera take) e abbia spesso confessato che Currents resta “totalmente inascoltabile”.

Il tempo passa inesorabile e Parker è richiesto da tutti: riconosce la potenzialità dei sample, la loro duttilità negli incastri e il suo lavoro piace a tutta la scena hip-hop. Si impegna con una gioia rinnovata e capisce che bisogna mettersi in gioco, in qualche modo, quando si sceglie una carriera del genere. Parker sta imparando a lasciare qualche traccia di sé, qualcosa che travalica l’isolamento e che lo rende credibile soprattutto a se stesso. “Sì, sto cambiando” afferma con purezza. 

Non è difficile pensare però che il nuovo disco dei Tame Impala non sia frutto dell’ennesimo isolamento di Parker. Lo ripete spesso nelle sue interviste: “Potessi fare un disco all’anno lo farei”. Lo sguardo è invece sul suo laptop, notte dopo notte, con la sola compagnia di qualche drink e un po’ d’erba. La pressione addosso è ancora più forte, ma non ci sarebbe musica dei Tame Impala se non fosse così. Lo scorso anno si è cercato un paio di stanze per trascorrere qualche giorno a Malibù e cercare di osservare il suo nuovo lavoro da un punto di vista completamente differente. A notte fonda, dopo una nottata che ha definito “one man party”, si è addormentato un po’ stordito. Al mattino le autorità della California hanno fatto evacuare l’abitazione per il tremendo incendio che ha sconvolto la costa. Parker è fuggito con il laptop e un vecchio basso, rinunciando a trentamila dollari di vecchi synth e varia attrezzatura andati (letteralmente!) in fumo. 

“È passato così tanto tempo?” recita il primo verso di Patience, il nuovo singolo finalmente rilasciato nel 2019. L’hype è alle stelle anche senza un nuovo disco pronto. Viene invitato al Primavera Sound; al Coachella è headliner con Childish Gambino e Ariana Grande, senza sapere nemmeno quale sarà il titolo del nuovo album. Ma le cose hanno finalmente preso la forma giusta. C’è un nuovo disco dei Tame Impala in cerca di una forma. Una volta terminato, Parker ha riconosciuto i colori dei singoli brani, le sfumature, qualche piccolo dettaglio minore meno incisivo del previsto e l’inebriante sensazione di avere creato qualcosa di grande (per sé e per gli altri). Una sensazione destinata a svanire nel tempo che testimonia comunque il dono di qualcosa che prima non esisteva e che il tempo ha collocato proprio in questo angolo di mondo, proprio oggi. 

È un pensiero magico che ha il potere di far stare bene anche noi.

TAME IMPALA The Slow Rush Caroline

Deve essere una sensazione strana vivere con gli occhi puntati addosso. La pressione che si infila tra la reazione del mondo e il lavoro degli ultimi quattro anni è un corpo pulsante. Certo, c’è stato molto altro: incontri, festival, luoghi e persone differenti, ma Parker non è il tipo da distrarsi troppo. Perciò ci è voluto il solito lungo isolamento tra l’Australia e la California, con ripensamenti dell’ultima ora che si sono riversati nella scaletta dell’album per arrivare a The Slow Rush, che prosegue con lo sguardo dritto un lungo e geniale percorso creativo. Occorrono davvero numerosi ascolti per diramare le trame che avviluppano il suono. Passato e presente continuano a mischiarsi tra loro: nei rapporti (con il padre, soprattutto e con una consapevolezza di sé accidentata) nei suoni (con le chitarre ancora in coda – negli arpeggi di Tomorrow’s Dust– e synth vecchi – ricordate i Supertramp? – e nuovi. C’è un ulteriore avvicinamento all’elettronica e alla dance con la solita voce spettrale (fin dalle prime note di One More Year) e nelle improvvise virate armoniche. È sicuramente il disco più ambizioso di Parker, con un groove solido e suadente (Borderline) e un battito percussivo che sa farsi danzereccio ed esotico oggi più che mai più vicino a Kanye West che alla psichedelia del ”70. Per questo The Slow Rushè un album che si prende il coraggio di scontentare qualcuno pur di proseguire una visione precisa. Vive in tutti questi incisi la complessità di un album GIOIOSAMENTE SFACCIATO. Paolo Dordi

Tre album che sono già storia

di Valentina Zona

Innerspeaker Modular Recordings, 2010

L’ESORDIO INASPETTATAEMENTE MATURO

Comincia qui la parabola pop-avanguardista dell’enfant prodige Kevin Parker, che dopo due EP e il “non-album single” Sundwon Syndrome, condensa nel disco di debutto del suo progetto Tame Impala la profondissima fascinazione per un universo 60’/70’s intriso di Beatles (soprattutto lato Lennon), e di psichedelia (dai Pink Floyd ai Pink Fairies, dai Pretty Things ai Creation). Il primo capitolo della saga retro-futurista di Parker suona come una clamorosa rivoluzione: per Rolling Stone Australia è il disco dell’anno. Un debutto che è già denso di mestiere e compostezza stilistica, e che soprattutto svela al mondo il talento istrionico di un giovanissimo e già navigato viaggiatore del tempo: Kevin Parker, che di fatto è l’artefice di tutti i prodigi contenuti in Innerspeaker, e che diventa automaticamente il guru indiscusso della nuova psichedelia. Uno psych-pop trascinante e raffinatissimo, il suo, nostalgico eppure perfettamente immerso nella contemporaneità.

Lonerism Modular Recordings, 2012

LA CONSACRAZIONE ANNUNCIATA

L’attesissimo secondo episodio del racconto a colori dei Tame Impala esce a due anni di distanza da Innserspeaker, e conferma le visioni del suo precedente (Lennon, la psichedelia reinventata, il passatisimo che riesce nel miracolo di suonare attuale). Il disco viene composto durante il tour e, nella sua pur sapiente coerenza stilistica, tradisce la sua natura di racconto di viaggio, con appunti e tracce registrate qua e là in giro per il mondo che racchiudono l’ispirazione luccicante di quello che è ormai uno dei più autorevoli sciamani sonici del nuovo millennio. Rolling Stone Australia (ancora) e NME lo eleggono disco dell’anno, e i più importanti magazine internazionali incoronano il genio di Kevin Parker: da Mojo, Spin e Uncut fioccano recensioni entusiastiche. Agli applausi pressoché unanimi della critica, si accompagnano il successo commerciale e le collaborazioni di prestigio: una su tutte quella con The Flaming Lips, sancita con lo split Ep Peace And Paranoia Tour, 2013, nel quale i Tame Impala reinterpretano due brani della band di Wayne Coyne, e viceversa; il tutto a suggellare un’amicizia cominciata l’anno precedente, con il brano Children Of The Moon, racchiuso nell’album corale The Flaming Lips And Heady Fwends.

Currents Interscope, 2015

LA SVOLTA ELECTRO

Currents coglie di sorpresa una ristretta nicchia di fan, i più puristi, ma la maggior parte si entusiasma, e il seguito già copioso della band si allarga a dismisura. Merito anche della declinazione in chiave sfacciatamente disco del pop psichedelico, ormai marchio di fabbrica del valente Parker, che questa volta mette in seconda linea le chitarre fuzzate a favore di veri e propri fiumi di synth anni ’70. Currents è un disco che è praticamente impossibile ascoltare senza ballare (provate a mettere su Let It Happen o Disciples o The Less I Know The Better). Non mancano momenti più cupi e meditativi (Gossip, List of People (To Try And Forget About), Powerlines), ma il risultato complessivo è ancora una volta un ascolto abbagliante, vivace, acutissimo. Un successo che è valso a Kevin Parker numerose altre collaborazioni (eterogenee come il suo estro: da Lady Gaga a Mark Ronson), e che soprattutto ha reso la band tra gli headliner dei più importanti festival internazionali (Coachella, Primavera Sound, Mad Cool), mentre hanno continuato ad alimentarsi le aspettative e la curiosità per il lungamente atteso quarto disco, al fine di vedere ancora una volta confermato, oppure no, quel prodigio di leggerezza e mestiere che è lo stile inconfondibile dei Tame Impala.

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