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Rude Boy: la storia della Trojan Records

Ha vinto il premio come miglior documentario alla quinta edizione del Seeyousound, festival di cinema a tematiche musicali, appena conclusosi a Torino. Un premio meritatissimo, non solo per la straordinaria qualità del film ma anche per gli argomenti, più che mai attuali, che emergono da questo racconto. “Rude Boy: The Story of Trojan Records” è un documentario sulla nota etichetta discografica inglese Trojan Records, specializzata in ska, rocksteady e reggae, fondata nel 1968 e in piena attività fino al 1975, l’anno in cui fallì. E’ questo l’arco di tempo coperto dal documentario, nonostante la storia dell’etichetta sia poi proseguita, tra alti e bassi, fino ai nostri giorni. Il regista, Nicolas Jack Davies, presente alla proiezione torinese per ritirare il premio, ha all’attivo collaborazioni con numerosi musicisti ed è stato regista di alcune serie tv a tema musicale. Il suo interesse per la realizzazione del documentario nasce proprio dai viaggi che ha compiuto in Giamaica per una di queste serie televisive. La storia della Trojan Records parte infatti dalla Giamaica dove negli anni ‘50 Duke Reid sviluppa il suo Sound System, chiamato Trojan, dando così voce alla musica e alla cultura locale. Fino a quel momento la musica comunemente diffusa era quella del paese colonizzatore, la Gran Bretagna. Grazie a Reid comincia ad emergere la musica autoctona, lo ska e poi il rocksteady, cantato e suonato dai “rude boys”, i ragazzi di strada. Nel 1962 la Giamaica ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna e molti giamaicani emigrano a Londra in cerca di fortuna. La situazione in Inghilterra è però tutt’altro che facile, c’è molto razzismo e il governo conservatore inglese non supporta l’integrazione degli immigrati. Molti giovani giamaicani espatriati si riuniscono nelle case per ascoltare la loro musica e cominciano quindi a circolare dischi di ska, rocksteady, reggae. Lee Gopthal, immigrato di prima generazione, riesce a cogliere questa nuova tendenza e dà vita alla Trojan Records. Presto cominciano a uscire i successi dei primi grandi nomi: Desmond Dekker, Dave and Ansel Collins, Dandy Livingstone, Derrick Morgan, The Pioneers, The Maytals.

Poi arrivano gli skinheads, i “rude boys” inglesi. Anche loro ragazzi di strada, anche loro provenienti dal proletariato, univano nel look e nella musica elementi della subcultura mod ed elementi della subcultura giamaicana. La prima generazione di skinheads, figlia degli anni ‘60 e ancora lontana dalla deriva destroide successiva, rappresentò uno dei fattori di diffusione di questi ritmi in Inghilterra, arrangiati in una seconda fase in modo orchestrale e pop proprio per andare incontro al nuovo pubblico bianco. Neri e bianchi ballavano insieme la stessa musica, si trovavano ai grandi festival ska e reggae e compravano i dischi della Trojan, l’unica etichetta ‘nera’ britannica.

Come ben sottolinea Don Letts nel documentario, questo spirito di unione tra neri e bianchi non lo creò la politica, né la chiesa, né altre istituzioni, riuscì a farlo solo la musica e fu l’apice di un movimento culturale e di quei generi musicali che vennero ripresi alla fine degli anni ‘70 da gruppi come i Selecter e gli Specials, ma anche dal punk, in particolare dai Clash, per poi arrivare fino ai nostri giorni con il rap e l’hip pop.

Oltre a quella a Don Letts, dj e regista di origine giamaicana e co-fondatore negli anni ‘80 dei Big Audio Dynamite, nel documentario ci sono molte interviste ai protagonisti di questa importante storia musicale e culturale, tutte affiancate da immagini d’archivio,filmati dell’epoca e ricostruzioni narrate con degli interpreti. Il regista ha spiegato infatti come il materiale d’archivio giunto ai nostri giorni sia pochissimo e come sia quindi stato necessario ricostruire alcune vicende nella finzione. Ma l’accostamento funziona poiché rende il film una via di mezzo tra documentario e fiction e dà un ritmo dinamico alla narrazione.

In attesa dell’uscita di “Rude Boy” in dvd, sul sito della Trojan Records ci si può già procurare la grandiosa colonna sonora, in pratica un ‘best of’ dei generi ska, rocksteady e reggae di quegli anni.

Rossana Morriello

 

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