Report dal Festival di Cannes
di Bruno Fornara
“Solo Dio perdona” di Nicolas Winding Refn.
NWR si ficca sempre, film dopo film, in situazioni pericolose, fa film scomodi, in questo caso viene fischiato sonoramente alla proiezione per la stampa. Carriera: Pusher (1966), Bleeder (1999), il naufragio di Fear X (2003), la resurrezione con Pusher 2 (2004) e Pusher 3 (2005), l’ultraviolento Bronson (2008), il barbarico Valhalla Rising (2009), il nichilista e romantico Drive (2011). Adesso NWR va in Oriente, a Bangkok, dove Julian (Ryan Golsing) gestisce una palestra di boxe che fa da copertura per il traffico di droga. La sua orribile madre (Kristin Scott Thomas), a capo di un’organizzazione criminale, arriva in Thailandia per riportare negli Usa il cadavere dell’altro suo figlio Billy, da lei amato, ucciso dai poliziotti per aver ammazzato e squartato una giovane prostituta. È la madrebelvassetatadisangue a spingere Julian perché vendichi Billy affrontando Chang, ex poliziotto in pensione e efferato criminale. E siamo così finiti in una storia dagli evidenti aspetti edipici. Refn: «Tra i due uomini in lotta, quello che vuole essere Dio e l’altro che lo cerca, si inserisce la madre: colei che genera la vita ma tiene prigionieri i propri figli». E siamo così finiti in una storia con evidenti richiami a tragedie greche (gli Atridi!) e bibliche. E siamo presi in mezzo a uno scontro di culture e di professionalità assassine di scuole lontane. Più tanti luoghi narrativi consolidati del cinema di genere. E in mezzo a tutto c’è la figura caricata di oscuri destini di un Julian laconico, sessualmente provocante, al tempo stesso impotente e castrato dalla madre. Refn, in questo paesaggio, non pensa neppure per un attimo a comportarsi in modo corretto. Si circonda di scenografie esageratemente orientali e barocche, tra penombre e luci al neon, il film diventa un impero dei sensi per lo spettatore, per i suoi occhi e le sue orecchie, luogo dove si affonda in un sonnambulismo che va dal violento al languido, al dolente, tra silenzi opachi e esplosioni di malvagità, tra momenti febbricitanti e altri astratti. Troppo stile? Troppo compiacimento? Sì, certo. Ma, a guardar bene, tutto questo apparato è messo in atto per farci intravvedere una lontana, fragile via d’uscita. Forse irraggiungibile, o forse praticabile da chi la volesse cercare. Un sentiero sconosciuto in cui la forza, la fisicità, i corpi potessero non rispondere più alle tentazioni del vuoto e dell’oscurità, ma a una pratica di aerea compostezza. Via ogni peso. Vorremmo volare. Refn ci sorprenderà ancora.
“Muhammad Ali’s Greatest Fight” di Steven Frears.
Un film di Frears per la HBO, il canale tv americano che offre ai registi parecchie possibilità di lavoro e di esplorazione. Frears mette nel suo film tre cose: 1) filmati di repertorio con le riprese di alcuni incontri di Muhammad Ali (Cassius Clay, suo “nome da schiavo” prima di diventare black muslim) e filmati con quelle magnifiche dichiarazioni di Ali, prima e dopo gli incontri, come anche fuori dal ring durante tutto il periodo in cui gli fu proibito di combattere per non aver lui voluto andare a combattere la sporca guerra in Vietnam; 2) i filmati di repertorio delle grandi manifestazioni contro la guerra e per i diritti civili; 3) la parte girata adesso che si svolge nel palazzone con pronao e altissime colonne corinzie dove tengono le loro riunioni i giudici della Corte Suprema. Giudici che devono decidere se accettare di discutere la richiesta di Ali perché sia rimessa in questione la sentenza contro di lui. Giudici che, una volta deciso questo, devono discutere e votare se confermare la sentenza oppure ridare tutte le sue libertà ad Ali. I giudici – ho imparato una cosa: ci si rivolge loro chiamandoli non “Judge” ma “Justice”, giustizia! bellissimo… – sono otto signori attempati che non è che discutano tanto, dicono piuttosto velocemente se sono per il sì o per il no e si contano i voti. Nell’ufficio accanto hanno un pool di chaps, di bei giovanottoni che vengono dalle migliori università americane e sanno di diritto, i quali preparano i dossier e prendono loro stessi posizione sui casi, perché sono sia repubblicani che democratici. Poi c’è una cosa sorprendente che non avrei mai pensato ci fosse. I giudici – dicono loro! – devono anche tenersi informati sullo stato delle cose riguardo ai delitti sessuali perché parecchi casi riguardano questo settore: e allora hanno una saletta nel basement in cui si fanno proiettare film porno per l’aggiornamento; e un giudice con occhiali che sta seduto un po’ indietro e non ci vede bene chiede a quello che gli sta davanti “ma sono due donne e un uomo?” e l’altro “no, sono tre donne”, allora, molto interessato, si sposta su una sedia più vicina allo schermo. Film molto tradizionale (deo gratias!), molto simpatico, molto veloce, molto interessante nell’esplorazione del dietrolequinte del mondo della giustizia e della politica. Grandi attori: Frank Langella, Danny Glover, Barry Levinson, Maggie Smith, Christopher Plummer.
“Nebraska” di Alexander Payne.
Un viaggio da Billings, Montana, a Lincoln, Nebraska, passando per Hawthorne, e ritorno. Cioè a dire un attraversameno di una pianura e un’altra e un’altra fino a ogni orizzonte. Un paesaggio sempre uguale, con paesi allungati su un’unica main street e l’ultima per cui passiamo si chiama, biblicamente, Locust Street. Un film in un bianco e nero dove il nero si sfarina in un quasi uniforme grigio pallido e latteo. Storie di vecchi. Il vecchio Bruce Dern pensa di aver vinto un milione di dollari e vuole andare a Lincoln a ritirare i soldi. Sua moglie: magnifico personaggio con una linguaccia che taglia il ferro. E tutti i parenti e amici o nemici: perché appena gira la voce che Woody ha vinto tutti quei soldi gli amici aumentano e anche i nemici. Woody è fissato, ha sempre bevuto troppo, capisce non capisce finge di non capire. È il figlio a portarlo in macchina a Lincoln. E tra padre e figlio, anzi figli perché ce n’è anche un altro, comincia un altro viaggio, verso una conoscenza e una riconoscenza che prima non c’erano. Dialoghi perfetti. Tante risate. La convinzione che non tutto sia ormai finito, che qualcosa resti pur sempre da fare. Premio per il viaggio: un pickup e un compressore. Film tenero, malinconico, umoristico, autunnale, amorevole. Nota: i due fratelli ciccioni sono gli stessi che facevano i fratelli gemelli che aggiustavano il tagliaerba nel troppo bel film di Lynch “Una storia vera”*****.