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OPETH

La parabola degli Opeth è una storia interessante, che va ben al di là del loro indubbio valore artistico, e che per coraggio, equilibrio, coerenza e spessore colpisce anche chi non è pienamente a suo agio con certi sottogeneri estremi, derivativi del metal.

Agli inizi degli anni ’90, gli Opeth erano quattro ragazzini svedesi che volevano inscriversi nella scia dei loro maestri, i Morbid Angel e i Death. Nel 1995 davano alla luce il loro debutto-capolavoro, Orchid, ma il carisma inesauribile del leader Mikael Åkerfeldt – unico membro originario del gruppo rimasto ancora oggi, a venticinque anni di distanza – lasciava già presagire sviluppi spiazzanti: ben presto, i loro dischi avrebbero rivelato una straordinaria capacità di ampliare i propri spazi d’espressione, virando sempre più verso la melodia (con l’apoteosi raggiunta probabilmente in Still Lifedel 1999, concept album ambientato nel Basso Medioevo), e aprendosi poi sempre più al progressive rock (galeotta, forse, la fascinazione per le tastiere, che entrano in pianta stabile nella formazione a partire dal 2005), arricchendosi persino di accenti folk, che sublimano le sempre più evidenti velleità “cantautorali” dell’istrionico Åkerfeldt. Il suo stesso stile vocale lo testimonia: il growl caratteristico e super-tecnico lascia spazio a una vocalità naturale e autentica. La transizione ineluttabile verso il prog culmina con Heritage, nel 2011, quando ormai il death metal delle origini è solo un lontanissimo ricordo.


Nella loro unica data italiana, gli Opeth portano all’Alcatraz il quarto episodio di questa loro progressione: In Cauda Venenum, pubblicato lo scorso ottobre. A sorpresa, saranno eseguiti soltanto tre brani tratti dal loro ultimo lavoro, mentre nella lunga setlist (oltre due ore di musica) verranno proposti pezzi estratti da ben otto dischi diversi, senza tuttavia concedere granché ai fan della primissima ora.


Ecco il primo dato interessante di questo live (in verità il secondo, perché il primo è stato senza dubbio il cappello da Bob Dylan indossato da Åkerfeldt): gli Opeth non hanno nessuna intenzione di blandire il loro uditorio. In molti, probabilmente, speravano di potersi concedere momenti di sfrenata nostalgia, ripercorrendo i giorni del primissimo death. Ebbene: non sono stati accontentati. D’altronde non dev’essere stato facile per Mikael e soci educare il loro pubblico a un’evoluzione graduale e complessa: avranno messo in conto l’eventualità di inimicarsi le frange più “estreme” e brutaliste dei loro fan. Ma tant’è. La perseveranza li ha premiati con un seguito fedelissimo, numeroso e trasversale: un pubblico che sfugge a etichette e definizioni, proprio come gli Opeth.


Del concerto ci ha colpito la maestosità e l’equilibrio: una capacità veramente unica di dosare il climax e le atmosfere; i tecnicismi sgargianti e i tempi dispari suonati con la naturalezza di un 4/4; ci ha colpito il mestiere e la voglia di raccontare in una maniera unica e personale, ironica e consapevole. E poi l’affetto dell’Alcatraz, pieno fino alle sue viscere, con i suoi messaggi d’amore pluridirezionali verso l’irresistibile e sardonico Mikael (ribattezzato con ripetuti cori da stadio “Michele”), il quale ha ricambiato raccontando che l’Italia è stato il primo Paese dove gli Opeth si sono sentiti i benvenuti.


Una serata che ci ha ricordato l’importanza delle trasformazioni, soprattutto quando sono convinte: volendo fare un volo pindarico estremo (ben più estremo degli Opeth), potremmo ricordare l’aforisma di Eraclito: Nulla è durevole quanto il cambiamento. Non c’è niente di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare. Tutto fluisce, nulla resta immutato.
Panta rei, dunque. E lunga vita agli Opeth.
Valentina Zona


Opeth, 9 novembre 2019 @ Alcatraz, Milano


SET LIST
LIVETS TRÄDGÅRD
SVEKETS PRINS
THE LEPER AFFINITY
HJÄRTAT VET VAD HANDEN GÖR
REVERIE/HARLEQUIN FOREST
NEPENTHE
MOON ABOVE, SUN BELOW
HOPE LEAVES
THE LOTUS EATER
ALLTING TAR SLUT

ENCORE:
SORCERESS
DELIVERANCE


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