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PRIMAVERA SOUND

Barcellona, Parc del Forum

23- 25 maggio 2013

 

Di ritorno dopo aver tastato il polso di una delle maggiori rassegne musicali del Vecchio Continente, delle due diagnosi che firmavamo l’anno passato correggiamo la prima e confermiamo la seconda. Quella del 2012 potrà pure essere stata un’edizione in relativo ribasso, ma quanto al prestigio dei suoi ospiti il Primavera Sound non ha iniziato niente di simile ad una parabola discendente, anzi: mai come quest’anno il cartellone è stato fitto, sin troppo, al punto che evitare sovrapposizioni ed esclusioni è impossibile, anche se il cuore sanguina. In compenso rimangono evidenti e, in una certa misura, preoccupanti, i sintomi della sindrome retromaniaca che affligge l’indie rock e il pop in tutte le sue forme: i sei nomi che potremmo definire a buon titolo come principali contano almeno vent’anni di vita a testa e più della metà di loro viene colta proprio nel bel mezzo di un reunion tour. L’annuncio dei Neutral Milk Hotel come primo headliner confermato per il 2014 è la riprova di un culto morboso per i passato prossimo che rischia di tenere in ostaggio le possibili via di fuga che la scena davvero “contemporanea” potrebbe offrire.

Ciò detto, esiste modo e modo di vivere da veterano: si possono tirare bellamente i remi in barca, come fanno i Jesus & Mary Chain e le Breeders, protagonisti di due set fiacchini, buoni giusto per pagare la riabilitazione, oppure tornare ad abbandonarsi all’abbraccio del pubblico con una scaletta da greatest hits che sa far godere: è il caso dei Blur, ancora oggi gli stessi balordi baggy boys che trent’anni fa andavano alla conquista dell’Inghilterra. Anche mister Bob Mould è uno che vive i propri anni d’argento con invidiabile serenità, tanto da averci intitolato il suo ultimo disco: più che i brani estratti da questo, sono i pezzi delle vite precedenti, con i Sugar e con gli Husker Du a fare la parte del leone nella setlist, che per molti versi assomiglia a quello di un inconfessato “performing Copper Blue” – ma è il vigore con cui si porta avanti la causa a far la differenza. Ne sa quell’altro tonico cinquantenne di Nick Cave, mattatore di un set tanto breve (un’oretta appena) quanto intenso, che coincide con uno dei momenti più alti del festival tutto. Quanto agli attesissimi My Bloody Valentine, basta aver ascoltato il loro nuovo lp per capire che il ticchettare delle lancette dell’orologio non è mai stato un problema per Kevin Shields e soci. Lo è invece, e come, la tacca del volume, stavolta rimasta a livelli criminosamente bassi: e veder uscire dal live finale gli ignari hipster con la permanente ancora illesa, credeteci, è un’indicibile delusione.

La tre giorni di Barcellona vive di contraddizioni anche per quel che riguarda il rapporto con il pubblico. Considerando che a questo giro il numero si è attestato sui centosettantamila avventori, è difficile pensare a quali luoghi sarebbero altrettanto capaci di degnare di tanta attenzione sia un live di Mulatu Astatke o dell’ottima Orchestra Poli Rhythmo de Cotonou sotto il sole pomeridiano, sia la sonorizzazione teatrale di Apparat, King Und Freden, presentata tra le pareti di un affollato Auditori. Da queste parti una proposta sonora complessa come quella dei Grizzly Bear può arrivare a guadagnarsi uno dei main stages, e qualche folle che resti a guardare le peripezie da turntable degli Animal Collective lo trovi sempre, foss’anche alle tre del mattino. Il concerto “in sopraelevata” improvvisato dai Wedding Present venerdì sera, poi, è il gradito regalo, per l’appunto, offerto a quanti tra noi stavano pressati sotto il palco Heineken in attesa del gruppo di Damon Albarn e rende bene l’idea di quanto gli organizzatori dell’evento conoscano bene i propri polli. Di contro, non è raro riscontrare una totale mancanza di senso critico, anche fronte ad esibizioni dall’esito non esattamente felice. Il caso di Daniel Johnston va al di là delle valutazioni e dei gusti personali: nell’Auditori di nuovo strapieno a ricevere gli applausi è un’icona feticcio dei cultori dell’underground, l’oggetto di una (nostra) curiosità un po’ morbosa e non l’uomo malato che un tempo ha scritto le canzoni che ora, più o meno faticosamente, intona, accompagnato da un trio di turnisti e un’aurea mitica che l’interessato forse non ha mai richiesto.

La bontà dell’offerta di un festival si misura anche in virtù di quel che riesce a farci scoprire e dalla possibilità di “toccare con mano” nuove sensazioni fino a qui solo chiacchierate: meno prodighi di rivelazioni rispetto agli anni precedenti, i palchi di Pitchfork e Vice vedono comunque ottime prestazioni da parte di Metz (pestoni vecchia scuola in scuderia Sub Pop) e delle Savages – che saranno pure un fenomeno calligrafico, ma quando si legge che mirano a far ”rivivere” la dark wave che fu la cosa va intesa alla lettera. Se ci date retta, poi, lasciate pure i Wild Nothing dove stanno, che tanto c’è poco da vedere e da sentire, e dedicate un ascolto più attento alle ultime creature dei Thee Oh Sees, garage-rockers di razza per gentil concessione del mai abbastanza lodato All Tomorrows’ Parties. Sul Ray Ban stage, recinto per emergenti europei, anche noi italiani ci mettiamo del nostro, con le esibizioni di Blue Willa, Honeybird and the birdies e Foxhound, tre nomi assai giovani eppure già idealmente collocati nel panorama internazionale.

Simone Dotto

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