PRIMAVERA SOUND ’16
Chi non ha mai provato l’esperienza del Primavera Sound non sa cosa si perde realmente: il prestigioso festival di Barcellona è una festa di musica, cultura, energia, passione e professionalità che non può lasciare indifferenti. Ben lo sa chi già vi ha partecipato negli anni precedenti e che spesso culla l’idea di tornare per vivere un’esperienza a suo modo unica.
L’edizione appena trascorsa non si è smentita in termini di qualità del cartellone, e nemmeno nella bravura incredibile dell’organizzazione che ha funzionato in tutto, anche nel mantenimento della pulizia costante del luogo e nell’assenza di qualsiasi tipo di violenza o situazioni sgradevoli per l’ordine pubblico. La musica è la regina e questo lo si nota anche negli stand presenti dedicati alle vendite di vinili e CD, gadget dei gruppi e stampe musicali. Niente inutili mercatini di collanine e bigiotterie varie, incensi, vestiti a basso costo. Questo lo si riserva ad altri appuntamenti e rassegne. Di certo non mancano i punti ristoro per gustare varie tipologie di cibo, dal vegan al carnivoro per accontentare i vari palati e pensieri, altro segno di maturità di chi cura tutto questo eccitante appuntamento.
Messe scarpe comode e una felpa per la brezza della sera si è pronti per macinare chilometri tra i vari palchi presenti nell’ampia area del Forum che ha offerto un ottimo antipasto il primo giugno con le acclamate performance dei sempre brillanti svedesi Goat, con il loro afro funk psichedelico freak, e i raffinati Suede con un Brett Anderson ancora in forma dignitosa e che ha cantato sempre con grande trasporto i successi della sua band.
Il giorno dopo si inaugura il vero tour de force dei live dove è impossibile poter assistere a tutto ma grazie ad un’utilissima app si riesce ad organizzare al meglio la sequenza dei concerti a cui partecipare. Ed ecco che così mi incammino per gustare un po’ degli Algiers, bella realtà statunitense che anche dal vivo conferma la sua bravura nel miscelare post punk, elettronica, soul, come facevano molto bene i Tv On The Radio degli esordi. Dopo una bella passeggiata da palco a palco ci si ferma davanti al suono ipnotico dei Beak>, il trio guidato da Geoff Barrow dei Portishead e votato al verbo kraut rock ipnotico che anche dal vivo mantiene la sua efficacia con il trio che risulta molto simpatico nell’intrattenere il pubblico tra un pezzo e l’altro. Apprezzate velocemente le qualità folk pop soul melanconiche del canadese Destroyer e la dinamicità elettro pop dell’americana, ma di origine honduregna, Empress Of, ci si dirige con una certa curiosità verso l’area dell’Adidas Stage, perché lì ci sarà il set dei redivivi A.R. Kane, i pionieri dello shoegaze prima che fosse interpretato dai suoi più noti esponenti come My Bloody Valentine, Slowdive ed altri. Della vecchia line-up rimane il solo Rudy Tambala che, accompagnato da una vocalist-chitarrista e da un giovanissimo chitarrista, sa ancora regalare grandi emozioni con effetti delle tre sei corde e delle voci che regalano quel senso di magia sognante che coinvolge per tutto il set. Dopo questa esperienza ne attende subito un’altra grazie a Floating Points, progetto in cui downbeat, psichedelia, jazz, funk vibrano all’unisono con una band che suona alla grande guidata dal suo mentore Sam Shepherd alle tastiere e farfisa. Si fa in tempo poi a gustare una parte del post rock sempre epico degli Explosions In The Sky e il folk sognante dei bravissimi Tame Impala, ma anche a conoscere qualche realtà nuova che si esibisce sul palco del Nightpro e proveniente da varie nazioni quali Polonia, Corea Del Sud, Chile, Italia (a rappresentarci ci sono gli Altre Di B, Matilde Davoli, Sycamore Age, C+C=Maxigross). A colpire sono i brasiliani Inky, autori di un vibrante punk funk scuola !!!, The Rapture, Lcd Soundystem. Dopo aver caricato le pile con loro si gusta una breve parte del concerto di John Carpenter, regista horror e musicista che, superati di molto i sessanta anni di età, ha ben deciso di portare in tour la sua musica con efficacia insieme ad una band giovane e molto capace. Echi di Giorgio Moroder in chiave noir risuonano nell’aria con un pubblico assolutamente rapito. Chi riesce però ulteriormente a conquistare sono i Mbongwana Star dal Congo, che regalano uno dei concerti più belli e trascinanti dell’intero festival. Dub, elettronica, chitarra impazzita post punk, ritmiche afro funk, nelle loro mani diventano una bomba esplosiva che non può lasciare indifferenti con due dei tre cantanti seduti sulla sedia a rotelle ma ugualmente dinamici e che si lanciano in frenetiche danze nonostante l’handicap alle gambe. Esemplari. Dopo questa ulteriore dose di adrenalina, spazio all’irruenza garage dei Thee Oh Sees, altra formazione statunitense di spessore che rende al meglio dal vivo come dimostra la line-up con voce, chitarra e due batterie che suonano perfettamente all’unisono con precisione e potenza. Un ultimo sforzo, prima dell’agognato letto, è per gli asturiani Fasenuova, descritti dal booklet di presentazione del Primavera come un progetto di decadente industrial. E in effetti il set non delude affatto con il duo che equilibra momenti di rumorismo puro cacofonico a brani di natura elettro cold wave cantati in lingua madre. E così scatta anche l’acquisto del loro vinile.
Il giorno successivo ci si prepara ad un’altra bellissima maratona inaugurata dall’atteso set dei Cabaret Voltaire all’Auditorium, spazio ultramoderno al chiuso dalle gigantesche dimensioni. A rappresentare la storica formazione elettro industrial di Sheffield è ormai il solo Roland H.Kirk il quale premette che saranno proposte solo nuove composizioni. Un megaschermo proietta con frenesia immagini che si sovrappongono con tema guerre, stermini, programmi TV, sesso, mentre i suoni sono dei martellanti beat digitali di derivazione techno che risultano comunque qualcosa di diverso dal classico suono della band, anche quello delle opere più tarde. Interlocutorio. Si esce a riveder la luce e si viene investiti dalla potenza sempre eccitante delle fenomenali Savages che, davanti ad una sterminata platea (molta lì in attesa del successivo e atteso live dei Radiohead), conferma di essere uno dei gruppi più capaci nel saper veramente scuotere anima e gambe. Jehnny Beth è sovraeccittata, canta benissimo, si getta sul pubblico più e più volte, vive con esso un evento pazzesco mentre il resto della band suona aggressivo, potente, coriaceo che è una bellezza. I loro dischi in studio non riescono ad esprimere quello che le quattro inglesi sono live, un’esperienza tutta da provare. Dopo questo sudatissimo set ci si fa di nuovo ipnotizzare dalle dinamiche cicliche dei Cavern Of Anti-Matter, trio guidato da Tim Gane, membro fondatore degli Stereolab, e che fonde la ciclicità kraut rock con piccoli frammenti di brillante pop mandato in loop. Veramente bravi e con set in crescendo. Si tenta ma non si riesce a penetrare la grande muraglia umana che è lì per la band di Thom Yorke e da una certa distanza riesco a seguire solo una piccola parte del concerto guardando lo schermo. Il volume è più basso rispetto al solito ma ciò non impedisce di capire che la band di Oxford è ancora tra le numero uno e l’intensità che arriva da quasi mezzo kilometro di distanza è comunque da brivido, come confermato da chi è riuscito a vedere ed ascoltare tutta l’esibizione che ha preso a mani basse anche dal vecchio repertorio, comprendendo una conclusiva Creep fuori scaletta come prezioso regalo del gruppo per tanto affetto ricevuto dai fans accorsi per loro.
Seppur si abbandona mestamente l’area Radiohead ben presto il morale torna su ascoltando i Dinosaur Jr. I tre sono visibilmente invecchiati fisicamente ma ancora giovani nel suono e nella furia delle chitarre e della sezione ritmica con uno J. Mascis “scazzato” come agli albori dei ’90 e per questo efficace con la sua musica. Non manca molto alla fine del concerto della band del Massachusetts che ci si trasferisce idealmente a Chicago con i Tortoise. Questi maestri del post rock, votati anche ad aperture jazz e sottilmente prog, sono una macchina da guerra a livello di tecnica e finezza degli arrangiamenti. Insomma musicisti di un certo rilievo che anche a Barcellona fanno la loro importante figura. Ci si avvia poi verso il il palco dove sono annunciati gli Animal Collective, immaginando di trovare tanto pubblico ma anche uno spazio dignitoso per poterli vedere da relativamente vicino. Pura illusione. Il gruppo ha attirato un numero incredibile di persone che ballano, si divertono, ascoltano le bizzarre note sintetiche del trio che, in verità, propone anche molti passaggi ostici e meditativi resi assai psichedelici dalla scenografia colorata e animata da strani pupazzi dietro i musicisti. Una fiaba acida che funziona ancora una volta. Quelli visti fino ad ora in questa giornata sono tutti nomi noti. Allora c’è voglia di scoprire qualcosa di nuovo e questo avviene con i Merkabah da Varsavia. Il quartetto polacco propone un vibrante jazzcore dove tutto è potenza, nevrosi e tempi dispari. Tanto agitati quanto precisi, convincono pienamente. Gran finale con l’ultima parte del live dei The Last Shadow Puppets di Alex Turner (Arctic Monkeys) e Miles Kane (ex The Rascals). I due sono tornati insieme sulle scene dopo anni dal primo album, e questa rinnovata liaison funziona benissimo con un ispiratissimo folk pop, genere in cui i britannici sono maestri. Con alle spalle una funzionale band, i due s’intendono a meraviglia e gigionano parecchio (soprattutto Alex Turner), lasciando trasparire una forte e sincera amicizia.
Ultima scorpacciata di concerti in data 4 giugno e si inizia ritornando all’interno dell’Auditorium per assistere al set solo chitarra e voce di Ben Chesny sotto la veste Six Organs Of Admittance. Il musicista statunitense è capace di catturare la platea seduta con un immaginario desertico desolato pregno di pathos e di delicata intensità. Questa ultima caratteristica di certo non appartiene ai nipponici Boredoms che sul palco all’aperto del Primavera spettinano ben bene i numerosi astanti con rumorismi noise, svisate d’avanguardia e musica concreta, lasciando ancora una volta perversamente sedotti. È necessario a questo punto un gradito aperitivo e l’organizzazione del festival ne offre gentilmente uno agli addetti ai lavori presenti da varie parti del mondo. Dopo qualche misurato bicchiere si ritorna nella confortevole “pancia” dell’Auditorium per godere della sempre raffinata oscura classe di David Tibet e il suo inconfondibile progetto Current 93. il numeroso ensemble è poco appariscente a livello scenografico ma di certo è incisivo a livello di suoni, con atmosfere che passano da oscure fiabe con sottofondo folk noir ad esplosioni più rumorose molto Swans. Non manca tanto alla fine del concerto ma ci si alza prima dalle poltrone per correre a vedere la reunion dei Drive Like Jehu, formazione di culto del noise post punk alternative anni 90 e autore di due fondamentali album. Il tiro è ancora giusto, le chitarre nervose e incisive come ai bei vecchi tempi ma, sul più bello, tutto scema. Infatti quando Rick Froeberg attacca a cantare ci si accorge che i vocalizzi isterici, sguaiati, paranoici che avevano fatto amare le vecchie canzoni non ci sono più. Ora Froeberg urla come tanti altri singers, grattugia vocale che fa perdere colpi al pur robusto sound del gruppo. Peccato. E allora ci si dirige velocemente verso il palco dove si esibirà PJ Harvey cercando di trovare una postazione dignitosa. Lei si presenta in scena come una sensuale dark lady accompagnata da una nutrita band che vede al suo interno il sempre fido John Parish, Mick Harvey (Bad Seeds, The Birthday Party e molto altro) e anche gli italiani Stefano “Asso” Stefana (fondatore dei Guano Padano) e Mr. Enrico Gabrielli. La performance pesca soprattutto dagli ultimi lavori più politicizzati nei testi ma anche meno irruenti nei suoni facendo la felicità di chi è fermo sostenitore delle sue opere più recenti. Chi invece è più affezionato al suo lontano passato può godersi una sempre efficace 50 For Queenie, Down By The Water e una struggente e scarna To Bring You My Love. Una grande artista, e su questo non ci sono dubbi, ma il desiderio di ascoltare qualcosa di più dalle sue remote produzioni rimane. PJ Harvey termina, i Sigur Rós iniziano. Fantastico. La band islandese è come sempre magia pura, uno spettacolo nello spettacolo dove i suoni si accompagnano ad una scenografia fatta di luci soffuse, illusioni ottiche, senso di sospensione dai dolori quotidiani che solo grandi artisti come loro possono regalare. Come al solito emozionanti. C’è però anche la curiosità di ascoltare Julia Holter, eroina anche del nostro giornale, e che dal vivo probabilmente perde un po’ della sua efficacia soprattutto quando è all’interno di un grande palco con davanti un’ampia platea. La sua è musica per spazi più raccolti e l’effetto dei suoi lavori in studio si disperde senza che però la poesia venga meno. Le forze iniziano ad esaurirsi ma un finale sforzo deve essere fatto e questa scelta viene ricompensata dal fenomenale Ty Segall & The Muggers. Il suo è un concerto al fulmicotone, un frullato di blues storto ed elettrico alla Jon Spencer Blues Explosion, bizzarria soul pop sbilenca come il primo Beck, potenza e deviazione stile Butthole Surfers. Lo show è adrenalina pura con un finale pirotecnico dove protagonista diviene un ragazzo in prima fila al quale viene offerto il microfono. Tale Manny diventa star per cinque minuti tanto che sale sul palco e Ty Segall prende il suo posto dietro le transenne, godendosi con sorriso divertito l’esibizione del fan che sa gestire il palco e la band da consumato mattatore. Questo è il degno finale di una festa incredibile che ancora scorrerà per varie ore ma che per il sottoscritto termina qui, già con la testa e il desiderio di rivivere questo carnevale di grande Musica attraverso le immagini in rete e nei tanti bei ricordi e flash immagazzinati in poche ma intense giornate.
Gianluca Polverari
ph EricPamies
Radiohead
PJ Harvey
Savages
Explosions in the Sky
Beach House