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MOGWAI | Milano

| Alcatraz | 31 Marzo 2014

 

Una precisazione, prima di cominciare, che è giusto fare: chi scrive nutre nei confronti dei Mogwai – per cause che non è certo il caso di approfondire qui ed ora, ma comunque legate ad una dimensione del tutto personale/professionale e non artistica – il medesimo sentimento che potrebbe provare un coniuge fedele da almeno un decennio nei confronti di un altro che, dopo averlo fatto vivere in una sorta di paradiso, l’ha piantato in asso di punto in bianco. Non dunque odio perché il passato non si dimentica, non (più) però amore, sostituito da un senso di “mancanza” e di nostalgia affiancato alla consapevolezza che indietro non si torna. Ciò nonostante, la professionalità impone di giudicare gli eventi all’insegna del loro effettivo valore, e per quanto separare analisi e sentimenti sia sostanzialmente impossibile, quel che si cercherà di fare in questa sede è limitare lo sversamento dei secondi nella prima, e di conseguenza la loro influenza sulla stessa.

Con ciò detto – e nella speranza che la particolare dimensione in cui si è assistito al concerto divenga il motore in grado di alimentare un giudizio del tutto spassionato e non un fardello di inconsci pregiudizi – dobbiamo prima di cominciare, narrare di come per l’ennesima volta l’Alcatraz sia stato infatti il teatro per la recita di centinaia e centinaia di telefoni cellulari, macchine fotografiche, videocamere e chi più ne ha ne metta. Il tutto a conferma del fatto che il 2014 – e il recente show dei Disclosure l’aveva già dimostrato – potrà essere ricordato come l’anno che ha consacrato la moda, imperante in realtà da almeno un decennio, di vivere “passivamente” i concerti. Se a ciò si vuole aggiungere un pubblico per il resto quantomai statico ma non abbastanza silenzioso per potersi considerare “rapito” dalla performance (confermatissima la costante, tutta italiana, del brusio a ogni cambio pezzo), gli elementi per una mezza débacle ci sarebbero stati tutti.

 

Se Stuart Braithwaite e soci non fossero autentici artigiani del palcoscenico, oggi staremmo infatti a parlare di tutt’altro. E invece accade che la serata dell’ultimo giorno di Marzo regali l’ennesima dimostrazione di maestria da parte di una band che, caso rarissimo, ha da sempre saputo condurre i percorsi in studio e dal vivo come due rette parallele ma separate in maniera evidente, sviluppate contemporaneamente e trattate come due ambiti differenti della medesima attività. Qualcosa è mancato, senza dubbio, e sono cose non da poco: l’empatia fra spettatori e band, qualcosa che non era mai venuto meno in uno show degli scozzesi, complice qualche (comunque opinabile) errore nell’organizzazione della scaletta, ma anche la mancanza di confidenza dal vivo con l’estetica dettagliata e minuziosa dell’ultimo, splendido lavoro.

 

Fatto sta che al loro ingresso sul palco, avvenuto una mezz’ora abbondante dopo il termine in apertura della bella performance di synth-music post-cosmica di Martin Jenkins aka Pye Corner Audio, è solo una minoranza del pubblico ad acclamare Heard About You Last Night. Il che, unito ad un Alcatraz ben lungi dal sold-out, non contribuisce certo ad una partenza all’insegna dell’empatia di cui sopra. La scena si ripeterà in corrispondenza di tutti gli estratti dall’ultimo Rave Tapes, probabilmente i brani più penalizzati dalla dimensione live per via della loro natura delicata e poco affine ai muri di suono che i cinque amano amplificare a dismisura dal vivo. Friend Of The Night è accolta subito dopo con un (non certo focoso) applauso che pare quasi di “sollievo”, e che dimostra di meritarsi grazie ad una progressione cinematica di sicura presa affidata alla solida guida del pianoforte.

Il primo mezzo passo falso è quello di piazzare Take Me Somewhere Nice a nemmeno dieci minuti dall’inizio del concerto: il capolavoro si conferma tale, ma chi si dimostra impreparato a coglierlo è un pubblico che nelle retrovie chiama a gran voce “i muri di suono”, salvo poi essere accontentato con una Rano Pano da brividi a profusione, primo vero grande acuto della serata. L’inserimento in setlist di Deesh, a discapito di altri pezzi da Rave Tapes ben più adatti per atmosfera e piglio (su tutti Blues Hour e Simon Ferocious) resta l’altro grande mistero, per altro reiterato da alcune delle precedenti date di un tour in cui, opener a parte, i cinque non hanno come di consueto mai mantenuto la medesima successione. Il primo grande salto nel passato con una Ex-Cowboy mutilata nella durata e una versione quasi techno di Mexican Grand Prix chiudono senza ammaliare la prima metà di uno show pronto però a risollevarsi in tempi brevi.

 

La scelta appare chiara solo a posteriori: “sperimentare” nel primo stint per poi scatenarsi nel secondo, nella speranza che l’alchimia con il pubblico arrivi già dal principio. E se così non è, si recupera. Già, perché basta una White Noise poderosa ed esplosiva per ristabilire in sei minuti la connessione persa più volte durante la prima ora, ed un’epica ed acclamata I’m Jim Morrison, I’m Dead a consolidarla sino a renderla impossibile da destabilizzare. How To Be A Werewolf è un altro highlight, che conduce in un passo dal crepuscolo all’estasi mandando in visibilio un’audience pronta ad accoglierla come un classico e a fare lo stesso con una versione a dire il vero decisamente troppo ruvida e grezza di Remurdered. Ma ormai la direzione è intrapresa: non può esserci chiusura più coerente di Batcat, luci rosse e una crudeltà tale da far venire in mente i tempi di Like Herod. Sipario apparente, e canonico bis già pronto per essere eseguito.

 

I Mogwai non aspettano nemmeno la chiamata del pubblico (che, per quanto in ritardo, comunque arriva), contano cinque minuti cinque di orologio e si ripresentano sulle fronde spezzate di The Lord Is Out Of Control, probabilmente il più bel pezzo di Rave Tapes nuovamente trattato senza la necessaria delicatezza. Ma per la malinconia evidentemente lo spazio non c’è, e a riaffermarlo forte e chiaro nell’ovazione generale è la celeberrima Auto-Rock, prima che i dieci minuti del mai superato capolavoro Mogwai Fear Satan non stendano definitivamente timpani e membra, come se si fosse tornati in un sol colpo a quell’energia che dopo Young Team si è via via progressivamente persa in favore di nuove strade da esplorare. Insomma, i Mogwai ci sono e continuano ad occupare il trono del (presunto) post-rock, a livello sia discografico che concertistico.

 

Ma è davvero tutto qui quel che c’è da dedurre da questo show? Probabile di no, gli elementi per aprire lunghe disamine sugli aspetti più disparati ci sarebbero tutti, anche in negativo. Da un’attitudine dal vivo che oggi più che mai tende a cozzare con quella in studio (come se le due linee arrivassero ad entrare in collisione anziché mantenersi parallele) all’impressione che, il mestiere giochi ormai un ruolo decisivo nei concerti di questo quintetto che può dire di avere scritto più capitoli della storia del rock, a differenza di tanti “figliocci” che però, proprio in virtù di questo, tendono ancora a vivere ogni concerto con l’entusiasmo e il brio della “prima volta” (ogni riferimeto ai 65daysofstatic è totalmente voluto).  Ciò nonostante, la cosa davvero importante da dire sui Mogwai è una sola: a quasi sedici anni dal loro fragoroso esordio, siamo ancora qui a parlarne, ad elogiare le loro mai scontate derive discografiche e a “goderci” nel complesso, mestiere o no, in forma o meno, i loro concerti. Mettendo da parte anche le delusioni personali. E non è cosa da poco.

Matteo Meda

ph Federico Tisa

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