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MAURIZIO BIANCHI

La Metafisica del Rumore

 

La civiltà moderna, come ogni cosa, ha di necessità una sua ragion d’essere e, se con essa ha da dischiudersi un ciclo, può dirsi che essa è proprio quel che doveva essere, che essa ha trovato il suo tempo e il suo luogo. Non per questo ad essa deve applicarsi con minore severità un detto evangelico troppo spesso mal compreso: «Occorre che lo scandalo vi sia: ma guai a coloro che faranno accadere lo scandalo!».
[…] Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità: la loro divisa sia quella adottata in altri tempi da certe organizzazioni iniziatiche dell’Occidente: “Vincit omnia Veritas”. (René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni Mediterranee, Roma, 1972)

 

Nascita di una leggenda
Il primo contatto “molecolare” che ebbi con Maurizio Bianchi fu attraverso lo stile batteriologico degli scritti che, oltre tre decadi fa, iniziò a vergare sulle colonne di Rockerilla. Le verità recondite che si annidavano fra le righe dei suoi magmatici e criptici articoli, funsero da turbinoso volano per la scoperta di realtà e saperi eterodossi che andavano oltre la mera critica musicale. Nel cuore delle sue analisi speculative c’era una sorta di tensione umanistico-drammaturgica che cresceva con il frastuono delle parole, vero e proprio scatenamento di cortocircuiti semiologici che reclamavano non solo attenzione, ma l’adozione di uno strumento ermeneutico che non si limitasse al solo ascolto passivo dei dischi da egli recensiti. “… è l’approssimarsi infetto della sindromatica esperienza vinilitica “Drömm/Slaves/Eulam’s Beat”, nel Marzo del ’79; un miscuglio inorganico di dissonanze imperniate sulla secolarità metronomica ed invisibile di un autonomo processo di stilizzazione “incompiuta”; in “Slaves” l’acquisizione del “rumore” anti-molecolare, simile ad una convulsa dispersione di elettricità solforica, miete vittime cancerogene e soffoca la gommosità della voce schermata di Anton Loach; questo complesso agglomerato sonoro, mefitico, globulare, anti-sensoriale, assorbe l’accompagnamento accordale che scorre lungo la composizione “radioauditiva” per eccellenza…”. Si tratta di un frammento di Metabolist, ovvero la trasformazione chimica del suono, articolo apparso sul N. 2 (Febbraio 1980) della nostra testata che, sebbene avesse prodotto situazioni di blackout sinaptico sui centri neuronali del sottoscritto, sentivo pingue di significati e di quintessenze nascoste, di oscure irradiazioni poetiche e di suggestioni empatico-subliminali che gridavano implorando alle mie inquietudini giovanili. Inutile dire che (dovendo rinunciare all’introvabile  7” Drömm), non appena disponibile, mi procurai una copia di Hansten Klork, primo ed unico leggendario album a 33 giri rilasciato quello stesso anno dagli impressionanti Metabolist di Anton Loach. Sotto i miei occhi s’era dischiuso un mondo ignoto, un vortice sotterraneo presidiato da una nuova progenie di titani visionari (post T.G.) che nei linguaggi del noise industrial riconobbero il grimaldello contro-culturale per scardinare convenzioni, ipocrisie e postulati. In prima linea – meraviglioso e terribile – c’era anche lui: Maurizio Bianchi…su Rockerilla di Gennaio un’approfondito articolo di Aldo Chimenti con intervista a Maurizio Bianchi e un’ampia discografia selezionata.

 

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