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MARK LANEGAN

12 agosto 2015 | Arena Conchiglia | Sestri Levante (Ge) |Mojotic 

Una voce dalle tenebre. Nessuno, meglio di Mark Lanegan, potrebbe essere definito così. La sua è infatti musica inquieta e inquietante, atmosfere cupe e spettrali con cui la personalità schiva e ombrosa dell’ex leader degli Screaming Trees combacia alla perfezione da ormai più di vent’anni. E, a giudicare dall’inizio, il concerto di Sestri Levante, davanti a diverse centinaia di spettatori che hanno affollato l’Arena Conchiglia, sembrava confermarlo: “Dark Mark” sale sul palco sotto le poche luci rosse e blu, mantenute fisse per tutta la durata dello show, accompagnato dai quattro membri della band, vestiti rigorosamente di nero.

Abito scuro e occhiali neri a coprire ulteriormente il volto, Lanegan apre subito le porte del suo mondo di oscurità, dove niente è rassicurante, ma in compenso tutto è vero e reale.

“Il nero è l’unico colore, il nero è il mio nome”, canta con voce gutturale e cavernosa in Harvest Home, eseguita subito dopo Gravedigger Song, la canzone “del becchino” che ha aperto la serata. È il buio che vuole, Mark Lanegan, infatti resta immobile all’asta del microfono, lontano dai riflettori e a pochi centimetri dal pubblico delle prime file.

Ancora atmosfere tetre e livide con Gray Goes Black, mentre Hit The City mantiene la sua carica e ruvidità anche senza la voce di P.J. Harvey.

Ma più si va avanti con lo spettacolo, più piccoli spiragli di luce fanno capolino a fendere il buio: sono le nuove sonorità, tendenti a certo pop anni Ottanta a cui ultimamente il cantautore ha volto lo sguardo, anche negli ultimi due dischi in studio, con Blues Funeral  prima e, più insistentemente, con Phantom Radio. Ed è soprattutto intorno a questi  due lavori che si concentra la scaletta del concerto. Un abbinamento che spiazza anche dal vivo, allo stesso modo in cui aveva diviso fan e critica su disco: le rasoiate minacciose di chitarra si fanno meno violente per permettere incursioni di suoni più ariosi di synth, drum machine e preregistrazioni in loop di ritmi che evocano facilmente la new wave e il dream pop. “Qui ho visto la luce”, canta ora Lanegan in Ode To Sad Disco e potrebbe non essere un caso, ma una precisa volontà di scardinare lo stereotipo di artista cupo e tenebroso che dopo tanti anni e numerosi dischi forse comincia a stare, almeno sul piano musicale, un po’ stretto. Anche l’umore di Mark sembra essere tutt’altro che nero: ringrazia ripetutamente il pubblico con un filo di voce, rauca e cavernosa, appare rilassato, misurato nel fraseggio e magnetico ad esprimere tutte le sfumature che la sua grave e caratteristica voce possiede.

Con Riot In My House alcune ragazze sulla tribuna dell’arena si mettono addirittura a ballare, poi è il momento della cover Deepest Shade, dolce ballata d’amore dal ritornello morbido, melodico ed orecchiabile.

Per i bis c’è un chitarrista in più sul palco: è Duke Garwood, collaboratore di Lanegan per il recente album Black Pudding, che si è inoltre reso protagonista di una suggestiva apertura di concerto, in solitaria, chitarra e voce e un blues sporco, grezzo e disturbato. La band omaggia i Joy Division con una versione intensa di Atmoshphere, poi arriva la toccante e inquieta I Am The Wolf ed è con la trascinante e tagliente Metamphetamine Blues che si torna nell’oscurità. Ma è solo un attimo, perché la conclusiva The Killing Season con il suo tappeto di suoni elettronici e archi riporta qualche bagliore di luce, almeno musicalmente.

E quando Mark abbandona definitivamente il palco resta l’interrogativo se il musicista di Ellensburg voglia davvero fare luce, o quantomeno tentare, sulla sua anima sofferente da tenebroso. Accendere una torcia nel buio, in un mondo popolato da spettri e ombre. Come in studio, così anche sul palco.

Marco Oliveri

ph  Francesco Margaroli

 

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