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L’UOMO CHE RUBÒ BANKSY

Iggy racconta Banksy

Iggy Pop è la voce narrante del documentario che il regista italiano Marco Proserpio ha dedicato a Banksy e alla street art. Presentato in anteprima al 36° Torino Film Festival, L’uomo che rubò Banksy uscirà nelle sale cinematografiche italiane per due giorni l’11 e 12 dicembre. Banksy, lo street artist britannico di cui si ignora la vera identità, si è recato nel 2007 a Betlemme, in Palestina, dove ha dipinto su un muro la nota opera Donkey Documents, che ritrae un soldato che chiede i documenti ad un asino, la prima di una serie che successivamente realizzerà in quelle zone. Come sempre ha agito di notte, senza essere visto, e come sempre la sua opera carica di significati sociali e politici, ha suscitato un’eco internazionale. Ma le reazioni dei palestinesi sono state contrastanti. Per alcuni l’artista ha fatto bene a usare il suo mezzo creativo per attirare l’attenzione sulla situazione di quei territori mentre per altri si è trattato solo di un modo per Banksy di ottenere notorietà e un ritorno commerciale. Tra i contrari c’è un tassista locale, protagonista principale del documentario, che decide di staccarle l’intera parete sulla quale era stata dipinta l’opera e di venderla in Europa, sostenendo che l’unico modo per aiutare realmente i palestinesi è di far avere loro dei soldi. Si tratta di un furto oppure il proprietario del muro diventa anche proprietario dell’opera e dunque il tassista ha agito legittimamente? È una dei tanti interrogativi che emergono quando si parla di street art.

Da questa operazione il regista prende infatti spunto per avviare una profonda riflessione sul mondo dell’arte e in particolare della street art, raccogliendo una serie di interviste ad artisti, galleristi, collezionisti d’arte, giornalisti, che si alternano alla voce narrante di Iggy e alla vicenda del ‘furto’ raccontata in prima persona dal tassista. La street art nasce per essere una forma d’arte pubblica, portatrice di una valenza sociale e realizzata in spazi pubblici affinché sia fruibile da tutti ma è quindi per sua natura un’arte effimera. Il graffito, proprio perché collocato in luogo aperto può essere deturpato, distrutto, o scomparire per degrado con il passare del tempo. Asportarlo dalla sua sede per conservarlo in un museo consente di evitarne il degrado e di garantirne la salvaguardia nel tempo, a favore delle generazioni future. Ma ha senso separare l’opera dal luogo e dal contesto in cui l’artista ha voluto collocarla? Non è questa una forzatura, uno snaturamento della street art? Alcuni artisti, come l’italiano Blu, hanno preferito distruggere personalmente le loro opere piuttosto che vederle collocate in un museo. Il murale Donkey Documents è a tutt’oggi invenduto.

La questione rimane aperta ma il documentario di Proserpio con il ricco dibattito che propone attorno a un’opera portatrice di evidenti risvolti sociali e politici sollecita lo spettatore a farsi una propria opinione. Rossana Morriello

 

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