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LUCA SAPIO – INTERVISTA

Gear Matters

Caro Luca, negli ultimi anni, attraverso i tuoi dischi e la tua attività radiofonica, sei diventato un personaggio ed un artista di riferimento per la soul music in Italia. Puoi raccontarci com’è nata questa passione e quali sono stati e sono gli artisti che ti hanno influenzato?
Legato alle case dell’infanzia di ognuno di noi c’è sempre un oggetto misterioso. Qualcosa di terribilmente attraente, ma per un motivo o per un altro non accessibile.
Per me era il giradischi. Era in alto su una libreria ed intorno aveva questi vinili con misteriosi ritratti di uomini dall’aria severa e fiera. Memphis Slim, Howling Wolf, Jimmy Reed, Muddy Waters erano tra quelli che mi incuriosivano di più.
Quando dalle casse suonava Mannish Boy, il salotto diventava un posto selvaggio.
Quei dischi avevano un alto potere evocativo. Riportavano in vita cose che sentivo vicine, ma non riuscivo a immaginare. E’ come quando si arriva su una scena del crimine. Gli indizi sono tutti lì. Manca solo il colpevole.
Quegli indizi sono diventati più chiari crescendo. Tra quei dischi oltre a buona parte del catalogo Chess Records, c’erano anche classici Motown, Stax, Verve, Impulse, Blue Note, Flying Dutchman. Tutte etichette che mi affascinavano per i dettagli e le note di copertina. Iniziavo a capire che per fare un disco ci voleva un arrangiatore, un produttore, dei musicisti e degli autori. Un disco era un lavoro di squadra e ogni elemento mi incuriosiva e affascinava. Sapevo ad esempio che se trovavo scritto arrangiato da Norman Whitfield, avrei trovato delle sonorità imprevedibili, visionarie anche se a cantare erano gruppi smielati come i Temptations.
Allo stesso modo sapevo che se alla batteria c’era Clyde Stubblefield probabilmente avrei tenuto con il piede il tempo per tutta la canzone. Cose di questa natura.
L’ultimo disco l’hai registrato con una tua band. È stato difficile radunare in Italia un manipolo di musicisti che condividessero la passione per il soul?
La maggior parte dei musicisti di nuova generazione è molto preparata tecnicamente. Ci sono molte informazioni oggi a disposizione per cui lo standard si è alzato moltissimo. Conoscono i linguaggi, l’armonia, ma pochi approfondiscono uno stile in particolare. Questo fa la differenza. Io ho cercato negli anni persone che avessero oltre all’ attitudine giusta, la volontà di studiare e ricercare all’interno di uno specifico ambito, senza concedersi prima di averlo esplorato fino in fondo nessuna “licenza poetica”. Prima di personalizzare uno stile bisogna conoscerlo.
Significa rinuncia. Rinuncia a suonare tutte le note che si vorrebbe ed essere disciplinati. Questa è la prima regola che io e la mia house band ci siamo dati. Suonare lo stretto necessario. In questo modo avviene una selezione naturale. Quelli che non ce la fanno scendono prima.
Oggi hai un tuo studio di registrazione analogico: quanto è importante per te riuscire a ricreare in studio le magiche atmosfere vintage del soul?
Gear matters” è la cosa che dico sempre.
Ho investito una fortuna in strumentazione esoterica ed analogica.
Ho studiato a lungo le tecniche di ripresa utilizzate nei vari studi e dai vari ingegneri del suono. Mi hanno sempre affascinato moltissimo.
Se però mi trovassi a scegliere tra il miglior parco macchine possibile ed una solida sezione ritmica sceglierei senza dubbio la seconda.
La house band è il segreto di ogni studio che si rispetti. La stax aveva Booker T. & The MG’s, Muscle Shoals aveva i Memphis Boys, la Motown i Funk Brothers e la Hi i fratelli Hodges. Musicisti che suonano insieme tutti i giorni per anni.
Mettere nella stessa stanza un gruppo ben affiatato e premere REC è l’ingrediente fondamentale per ricreare quel suono e quello che ho cercato di fare nel mio studio.
Ed hai anche creato una casa di produzione, la Blind Faith Records, con la quale hai prodotto l’ultimo disco di Martha High. Puoi anticiparci i tuoi progetti futuri?
Certo. Abbiamo da poco pubblicato Camille 2000, una meravigliosa colonna sonora del maestro Piero Piccioni, con brani mai usciti prima, solo in vinile. Un’operazione che sto curando insieme a suo figlio e che vedrà presto l’uscita di altre gemme dall’archivio di uno dei più grandi compositori del nostro paese.
A settembre invece sta per uscire il disco di Sugaray Rayford, un ex marine texano alto due metri per duecento chili di peso. Ascoltarlo cantare è come vedere un tirannosauro vivo camminare nel centro di una città. Non sembra possibile. Credo sia il miglior cantante soul che abbia mai sentito in tutta la mia vita.
Poi c’è il nuovo disco di Baba Sissoko, la superstar maliana con la partecipazione di Max Whitefield (batterista dei Poets Of Rhythm) che non vedo l’ora di finire.
Pensi che la musica Soul possa tornare ad avere uno spazio significativo in Italia?
Purtroppo la musica soul non ha mai avuto uno spazio significativo in Italia.
E’ sempre stata una cosa per carbonari.
L’unica realtà longeva e degna di nota è l’incredibile festival creato da Graziano Ulliani. Se si vuole ascoltare il soul, se si vuole respirare per un attimo quell’atmosfera, bisogna andare in estate tra le colline dell’appenino tosco emiliano. A Porretta, dove ci sono strade e piazze dedicate ai giganti del soul e dove si esibiscono e si sono esibiti artisti leggendari da quasi un trentennio. Personalmente ci vado quando posso e non smetterò mai di ringraziare Ulliani per gli artisti che mi ha fatto conoscere e vedere dal vivo. James Carr, Eddie Hinton, Syl Johnson, Isaac Hayes, Solomon Burke, chiunque vi venga in mente è passato di lì.
Spero che prima o poi l’Italia riconosca il valore del suo lavoro inestimabile.
A livello planetario stiamo assistendo ad una rinascita di certe sonorità ispirate alla musica afroamericana degli anni sessanta e settanta, grazie anche al successo di artisti come Amy Winehouse e Sharon Jones o di etichette come la Daptone. Credi che questo possa essere un fenomeno in crescita anche qui in Italia o da noi è destinato a rimanere marginale?
Marginale. Gli appassionati sono pochi. L’ascoltatore medio italiano è stordito da troppe informazioni musicali. Per appassionarti a un genere hai bisogno di qualcosa di più di una semplice canzone. Hai bisogno di conoscerne le parole, la storia.
Ci vuole la giusta presentazione. E’ come se sotto quattro chili di purè di patate nascondi un tartufo bianco d’Alba. Probabilmente non se ne accorgerà nessuno.
Quali sono gli artisti di questa nuova ondata funky soul che ti hanno maggiormente impressionato, visto che molti di loro hai avuto anche modo di conoscerli da vicino?
Più che i cantanti, mi incuriosiscono i produttori.
Credo siano loro i veri artefici di questo revival. Non ci sarebbe stata Sharon Jones senza Gabe, non ci sarebbe stato Charles Bradley senza Tommy e non ci sarebbe stato Lee Fields senza Leon.
Tommy è quello che conosco meglio, avendo lavorato con lui.
Quello che mi ha impressiona ogni volta è la sua capacità di suonare perfettamente in stile un infinità di strumenti.
Questo gli consente di ottenere il meglio da ogni musicista in sala di registrazione. Sa esattamente cosa chiedere per ottenere quello che ha in mente e se qualcuno non lo soddisfa, se lo suona da solo.
Come vedi la scena black italiana, dall’esplosione di funk band come i Calibro 35 alle proposte di etichette emergenti come la Record Kicks, attiva anche a livello internazionale …
Il termine funk per me ha un accezione piuttosto negativa. Negli ultimi anni ho sentito definire funk qualsiasi cosa. E’ diventato anzi il filtro migliore per non perdere tempo ad ascoltare cose che non mi interessano. Quindi preferisco non definire i Calibro 35 come un gruppo funk, perché credo siano altro. Sono un gruppo italiano che suona esattamente nello spirito dell’unica musica che siamo mai riusciti ad esportare, quella concepita dai grandi compositori italiani che guardavano oltreoceano. Lo fanno benissimo e sono bravissimi e non sono black come del resto non lo sono io. “Soulful” credo sia il termine adatto. La Record Kicks è una realtà coraggiosa e rispettata grazie alla passione e all’impegno di Nick con il quale ci scambiamo sempre consigli e dischi ovviamente.
Sei a conoscenza di centri, scuole o strutture dedicate all’ascolto, valorizzazione e promozione della black music in Italia?
No. Credo che però le radio da qualche tempo a questa parte stiano cominciando a diffondere questa musica in maniera meno superficiale. Personalmente nella mia trasmissione cerco di far capire quanto la musica afroamericana sia strettamente legata alla storia della sua gente. Credo che inquadrare storicamente e politicamente questo tipo di musica sia necessario per poterla apprezzare e capire.
Pensi che la crescente popolarità dei rapper in Italia può giovare anche alla causa del soul e dell’RnB o finisce solo per surrogare e banalizzare quelle gloriose tradizioni musicali nere?
Milioni di ragazzini ascoltavano Nas e il Wu Tan Clan e si chiedevamo da dove arrivassero le loro basi. Questo scatenò una caccia al campione senza precedenti. Tutti volevano capire dove J. Dilla avesse pescato quel groove di batteria o da che disco arrivassero quegli accordi suonati sul Fender Rhodes.
Le fondamenta su cui i rappers italiani costruiscono le loro rime non hanno quell’approccio. Gli impianti sono diversi. Non so dirti esattamente dove peschino o con cosa costruiscano le loro basi. Sono costruiti il più delle volte da un ragazzo davanti ad un computer con tera e tera di mp3 e loop scaricati da internet. Non credo ci sia nulla di sbagliato, ma è decisamente diverso dall’immagine di qualcuno seduto in una stanza a setacciare vinili fuori commercio alla ricerca di quel beat oscuro sul quale costruire qualcosa.
Poi c’è anche la componente pigrizia del nostro paese.
Ricordo quando nelle radio suonava Supercafone del Piotta.
Tutti ballavano e si divertivano, ma secondo te quanti sono andati a cercarsi l’originale di Tyrone Davis?

Gianni Tarello

ph Davide Gostoli

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