LOW
Milano | Teatro Martinitt | 6 Novembre 2013
L’ha ammesso, poco prima della fine della serata, lo stesso Alan Sparhawk, classico personaggio da pochissime parole meticolosamente ponderate: “È nei posti così che ci piace suonare, nei posti dove la gente si può sedere e rilassare e dove noi possiamo sentirci a stretto contatto con voi”. Salvo poi correggersi e notare che il pubblico, la sera del 6 Novembre, non era poi “così tanto rilassato”: per molti, infatti, è stato semmai il trionfo dell’emozione, dell’intimità pura, della dolcezza. Sorrisi interiori, di quelli che si trattengono perché non ha senso sorridere in mezzo alla gente, ma che dagli occhi fuoriescono senza possibilità di nasconderli.
Su una cosa, però, Alan ha colto nel segno: il Teatro Martinitt, splendido gioiello milanese il cui unico difetto è la sua collocazione nell’estrema periferia est della città (sebbene un comodo bus lo colleghi direttamente con il centro), è stato il luogo perfetto per l’esibizione del trio del Minnesota. Un’atmosfera minimale e sobria, nessuna band d’apertura e un palco privo di qualsiasi artificio scenografico, eccezion fatta per delle videoproiezioni (fortunatamente) invisibili almeno dalle prime file della platea. La musica eretta a protagonista unica dello show e, dote ormai fuori dal tempo, una puntualità svizzera sancita da un conto alla rovescia rispettato al centesimo di secondo dai tre prima dell’inizio dell’esibizione.
A trenta secondi dallo scadere del countdown, i tre si presentano sul palco fra le malinconiche piaghe di una Plastic Cup già in grado di strappare virtualmente le prime lacrime, eseguita quasi sottovoce, come a cercare in punta di piedi l’alchimia con l’audience. La scaletta è per un buon terzo incentrata sull’alternanza tra gioia e malinconia dell’ultimo The Invisible Way: scorrono così, come fotogrammi usurati ma ancora pregni di colori accesi, il folk in due tempi di On My Own, una sentitissima Clarence White, una più dimessa Holy Ghost – con Parker che sfoggia una forma vocale a dir poco strepitosa – e lo splendido corale di Waiting, primo vertice da pelle d’oca della serata. Di mezzo, c’è spazio per un solo recupero dal passato recente con una Monkey a tinte più fluide a rappresentare una delle poche “soste emotive”.
Gli altri due album a spartirsi una buona metà delle restanti scelte sono C’mon e Drums And Guns, rispettivamente penultima e terzultima fatica discografica del trio: in Especially Me è di nuovo Parker a guidare in un sogno lucido dai contorni sublimi, nel mantra Dragonfly le distorsioni spigolose vengono sostituite da caldi arpeggi e il crescendo elettrico di Nothing But Heart tocca il secondo picco dell’esibizione, trascinando in un mix di lacrime e brividi. Al centro di questa progressione, quasi casualmente, s’infila il primo classico: Words, unico rappresentante in scaletta del capolavoro I Could Live In Hope, ipnotizza in una fiaba dalle sfumature al tempo stesso plumbee e rasserenanti, guadagnandosi una lunga e meritata standing ovation.
Una vivace e brillante Sunflower “sveglia” da un sogno in cui si sarebbe voluti rimanere forse un po’ di più, aprendo però la terza e ultima fase dello show, la più eterogenea sia cronologicamente che nel mood: In The Drugs è un autentico colpo al cuore, nel suo delicatissimo concentrato di tristezza e gioia, mentre la costruzione progressiva di Murderer è la più classica chiusura col botto, di quelle in grado di stendere per ore e di impedire ad una cover (di per sé anche riuscita) di Stay di Rihanna (!) di rovinare l’atmosfera allo scadere. Il bis è trattato quasi come una formalità, separato di nemmeno un minuto dal finto saluto ad un pubblico letteralmente stregato: Violent Past è il perfetto risveglio per un ritorno alla realtà lento e pieno di nostalgia, “festeggiato” alla luce del sole di una Last Snowstorm Of The Year privata di parte del suo pathos dalla incolmabile mancanza degli archi.
La chiusura è affidata alla non troppo nota I Hear… Goodnight, ballata disciolta nel miele concepita al fianco dei Dirty Three per il settimo capitolo della serie In The Fishthank, senza dubbio il brano meno noto dell’intera scaletta. Tutto finisce così, nella maniera più sobria e pura, esattamente com’era iniziato: ma il Martinitt, quasi in sold out, non ne ha ancora abbastanza. Per cinque minuti buoni l’impianto d’illuminazione resta spento, illudendo nella possibilità di un terzo ritorno sul palco, chiamato a gran voce e a suon di applausi. Ma il sogno, questa volta, è davvero finito, e quando le luci si accendono, anche gli occhi se ne rendono conto. E a conti fatti, visto l’equilibrio perfetto raggiunto (anche) nella durata, è senza dubbio giusto così.
Matteo Meda