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LEONARD COHEN

You Want It Harder  | Sony

Sottolineare la profondità di una carriera densa come poche altre non ci aiuterebbe molto nel comprendere il sottile disincanto che pervade gli ultimi lavori di Leonard Cohen. Non sono tanto i suoi ottantadue anni a fare sensazione, quanto la sua capacità di affrontare un oggi scuro e crudele come non mai senza la minima esitazione, senza un solo tentennamento. Giunti a un tale livello di comprensione (o di lucida incomprensione) dei sentimenti più profondi e del carico tremendo che a volte si trascinano dietro, Cohen affida a una manciata di versi riflessioni che si avvicinano a Dio (e a un presunto non distante commiato), a vecchie amanti, a vecchi amori sbriciolati, alla polpa acuminata di certe convinzioni personali. Con la consueta voce capace di scavare solchi vertiginosi e una solida produzione affidata al figlio Adam, gli otto brani (più un reprise strumentale) di You Want It Harder sfiorano il folk (nella lentissima ballad Leaving The Table), si allacciano a un solido coro ebraico di Montreal (nella title-track), percorrono un tappeto fragilissimo di archi in compagnia di un pianoforte (Treaty), scavano nel profondo di un cuore ancora pulsante (nell’audace violino in sospensione di Travelling Light). Tutto è dannatamente vivido e commovente, una mezz’ora di musica che incastona un altro album meravigliso.

Paolo Dordi

 

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