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KULA SHAKER

| Orion Club | Ciampino | Roma | 26 febbraio 2016

Un pubblico da grandi occasioni, con tanto di banchini battenti magliette false ad ingresso parcheggio e nutritissima colonia turistica inglese al seguito, segna il ritorno dei Kula Shaker “in the eternal city” (parole di Crispian Mills) dopo quasi nove anni. Indizio che gli inglesi qualcosa di buono, in questi venti anni di mode volubili, l’hanno comunque seminato. Qualcosa di buono e anche durevole, a ben vedere.

L’esibizione dei quattro britannici è infatti solida, tenuta su ritmi sempre alti e spesso crescenti, ben suonata e ben pensata nel suo insieme. La band non tradisce rughe visibili ad occhio nudo (certo, qualche maligno potrebbe prendersi la briga di far notare che i Kula Shaker apparivano già stravecchi e stancamente manieristici nel 1996, ma questo non è il parere di chi scrive) e il repertorio, molto saggiamente, privilegia le hit universalmente note dei primi due album, con ovvia preponderanza numerica dell’esordio K. Brani questi ultimi che, al di là di ciò che di questo gruppo si sia talvolta pensato, reggono splendidamente, nei loro momenti migliori, alla prova del tempo. Una canzone come The Sound Of Drums (azzeccatissima apertura), per dirne una, non vale oggi meno di un qualunque motivetto dei Temples.

Lo sa bene il pubblico, numeroso, chiassoso, entusiasta, attentissimo, impaziente, che spesso va a memoria e rilancia cori e ritornelli senza batter ciglio. Del nuovo K 2.0 si lascia ricordare in particolare un’ottima Mountain Lifter (che va presto fare il paio con Peter Pan R.I.P., da Pilgrim Progress del 2010), ma la gloria è tutta per le varie Hush, Into The Deep, Tattva, Mystical Machine Gun, o per la preghiera rivolta al santino di Jerry Garcia Grateful When You’re Dead/ Jerry Was There. Un cocktail forse prevedibile ma mai noioso, quello che i Kula Shaker servono ai loro accoliti, fatto di lampi swingin’ in acida cromia psichedelica, spiritualismo vedantico (forse un po’ annacquato) e riff contrabbandati un po’ qua un po’ là (Hawkwind, Led Zeppelin, George Harrison, Hendrix, Pink Floyd…), ma sempre con stile, talvolta anche ironia.
Il trionfo si ha nel bis con il trittico Hey Dude, Great Hosannah (bel colpo, l’avevamo dimenticata!) e, ovviamente, Govinda: vedere (e sentire) un migliaio di persone che cantano all’unisono un pugno di antichissimi versi devozionali in sanscrito fa sempre il suo curioso effetto…

Francesco Giordani

Kula-Shaker

 

 

 

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