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KISS

Bologna | Unipol Arena | 16 Maggio

C’è un’età per tutto. E a tutto c’è un limite. Se a quarant’anni vuoi fare il calciatore ad alti livelli, rischi di fare la fine di Totti: giochi cinque minuti, ti godi gli applausi alla carriera e aspetti la fine. Quando sei stato una pedina fondamentale per la tua squadra e sei diventato una specie di mito vivente, scendere tra i mortali, mettere in luce i difetti, non ti fa onore.

Al contrario del calcio, la musica non è uno sport ma il rock, in alcuni casi, gli si avvicina. E, se hai fatto carriera saltando su e giù da un palco per almeno trent’anni, travolto da continue scariche adrenaliniche; se hai sempre fatto musica con il corpo più che con la testa; se la tua vita è rimasta legata allo stereotipo di “sesso, droga & rock’n’roll”, arriva un momento in cui devi dire basta. O a dire basta sarà il tuo fisico. Il problema dei Kiss è che non vogliono proprio saperne di smetterla. E tantomeno lo vuole il loro pubblico, che continua a rispondere compatto alle chiamate a raccolta della Kiss Army.

Sono almeno dieci anni che Gene Simmons e Paul Stanley hanno raggiunto il limite. Anzi, facciamo anche venti. Se la loro storia di musicisti si fosse conclusa alle soglie del nuovo millennio, dopo il trionfale tour della reunion con Peter Criss e Ace Frehley, il Demone e Starchild avrebbero evitato di macchiare il mito con qualche brutta figura. A nessuno, però, piace invecchiare, né ammettere di essere arrivato alla fine di un percorso. E allora eccoli lì, ancora sul palco alla soglia dei settant’anni, a guidare il carrozzone Kiss verso la messa in scena dell’ennesima pantomima.

Come se il tempo si fosse fermato, il Kissworld Tour ’17, approdato in Italia per due date (Torino e Bologna), è la riprova del fatto che la band non ha più niente da dire né da dare se non ripetere all’infinito i “numeri” che l’hanno resa famosa. Era tanto tempo fa. Oggi il trucco non riesce più a coprire le rughe, la voce di Paul si è definitivamente smarrita, mentre quella di Gene si è trasformata nello strano brontolìo di un mangiafuoco senza più fiato.

Alla fiera delle cose scontate non c’è posto per le sorprese. Si va avanti con gli stereotipi, con Simmons che, alla fine di Firehouse sputa una nuvoletta di fuoco e poi si fa colare sangue finto dalla bocca nell’intro di God of Thunder. Ma le vecchie trovate sceniche non stupiscono più e i fuochi d’artificio che spuntano dal fondo del palco e dalla chitarra di Tommy Thayer durante l’assolo di Shock Me, producono il rumore triste del tappo saltato ad una bottiglia di champagne sfiatata. In questo circo del rock Stanley sembra quello più in difficoltà. Le sue leggendarie urla restano bloccate in gola, le infinite camminate provocanti, i salti, le acrobazie del figlio delle stelle sono state sostituite da lunghe chiacchierate con il pubblico, siparietti clowneschi per prendere fiato.

La scaletta, manco a dirlo, è un omaggio al passato, un greatest hits in cui trovano posto tutti i classici, scelti in modo da non dispiacere nessuno: da Deuce a Lick It Up, passando per Shout It Out Loud, Black Diamond e Crazy Crazy Night, con Rock’n’roll All Nite, I Was Made For Loving You e Detroit Rock City a concludere il party in un mare di coriandoli. Incomprensibile la scelta di una Say Yeah molle e fuori luogo, mentre una rocciosa War Machine e la sorprendente Flaming Youth il tempo sono riuscito a fermarlo davvero, ricordando ai presenti che i Kiss, nonostante tutto, per qualche minuto riescono ancora ad essere la band che il mondo ricorda. Come Totti quando entra in campo giusto per il tempo di una standing ovation dedicata al suo passato. E, magari, in quella manciata di minuti gli capita anche di segnare il rigore decisivo.

Sono le 22.40 quando i riflettori, i laser e i megaschermi si spengono per l’ultima volta, sulle note di God Save Rock’n’roll To You. Un tempo, a quell’ora i Kiss sul palco ci salivano. Un tempo.

Daniele Follero

 

 

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