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JASON MOLINA

OLTRE IL BLU

 

Sarebbe scontato, di fronte alla scomparsa di Jason Molina, avvenuta il 16 marzo scorso, provare a stabilire un funesto denominatore tra i destini di sensibili interpreti del solitario spleen cantautorale degli anni a cavallo tra vecchio e nuovo secolo, da Elliott Smith a Mark Linkous, passando per Vic Chesnutt.
Trascendendo le epidermiche formule del songwriter che affida principalmente a chitarra e voce lo sfogo delle ferite inferte dalla vita a un cuore debole per carenza di difese, ciascuno di questi artisti è stato portatore di una propria storia drammatica, espressa con piglio e stile spiccatamente personali.
Quella di Jason Molina ha avuto come demone l’alcool (che a trentanove anni ne ha stroncato l’estremo tentativo di riabilitazione in una comunità specializzata), ma ha sempre ruotato intorno a un animo preda di un’inquietudine endemica, fiaccato da tormenti sentimentali e da un’introversione ai limiti della patologia, depotenziata come per miracolo solo imbracciando una chitarra. È una vera e propria trasformazione, come da crisalide in farfalla, quella dello schivo ragazzo Jason Molina nel cantore dalla voce calda e dolente, ben presto capace di sostenere la tensione emotiva del palcoscenico per condividere, con un pubblico non certo oceanico ma a lui molto affezionato, la poetica del suo cuore spezzato, talvolta rivestita di un efficace linguaggio metaforico, ma più spesso affidata a un registro tanto spoglio e diretto da risultare persino crudo, eppure sempre pervaso da un lirismo autentico e coinvolto… Su Rockerilla di Maggio l’articolo completo di Raffaello Russo.

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