JAGA JAZZIST
Monk | Roma | 23 Novembre 2016
Dopo più di dieci anni di assenza dalla ribalta romana la big-band norvegese guidata dai fratelli Lars e Martin Horntveth riempie il palco del Monk con un’affollata line-up di nove elementi: si dicono felici, lo ripetono più volte dal palco, del loro ritorno a Roma con questo tour che cavalca ancora l’onda lunga di Starfire, l’album uscito lo scorso anno e che non mi aveva convinto del tutto, sapendoli capaci di rimarchevoli finezze in studio e di stellari performance dal vivo. La band sembra in forma, il pubblico si accalca e partecipa, trascinato da fiati avvolgenti, vocalizzi estatici e ritmica serrata, la serata gira per il verso giusto, eppure durante l’ora e mezzo del live romano le perplessità suscitatemi dall’ultimo disco si ripropongono più volte. Sullo sfondo si staglia il variegato fondale di un post-rock felicemente sposato con il jazz-rock, ben bilanciato tra pura fisicità e intelletto, pensate ai Tortoise a spasso con i Weather Report, ma il passo “jazztronico”, stasera ancor più che sull’album, accelera troppo spesso in direzione di una fusion “club-oriented” e massimalista che fa perdere compattezza soprattutto ai brani risalenti al repertorio storico del gruppo. Nulla da eccepire sulla straordinaria capacità dei Jaga come esecutori e sull’invidiabile smalto mostrato in scena da tutti i membri dell’ensemble, ma quel synth vintage, che prende in prestito parecchio dal Pat Metheny Group e spara bordoni sinfonici dalla prima linea del palco, è davvero da evitare.
Raffaele Zappalà