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IN THE COURT OF THE CRIMSON KING: KING CRIMSON AT 50

Regia: Toby Amies

Toby Amies si merita un applauso per essersi preso il compito di seguire i King Crimson in giro per l’Europa durante il 2019. E non solo per averci lasciato una testimonianza inestimabile del funzionamento interno della più importante band di prog rock dell’universo, ma anche per essersi sottoposto a lungo alle vessazioni di un gruppo di vecchietti burloni. Facciamo un passo indietro: le vessazioni non sono vere e questa recensione non vuole offendere mostri sacri. I King Crimson non sono abituati ad essere seguiti passo a passo e, chiaramente, non hanno tempo per domande sul passato. I King Crimson sono cambiamento, sguardo puntato verso il futuro indipendentemente dall’età, full stop. E lo sanno – di qui gli scambi con Amies, che di primo impatto potrebbero essere scambiati per mancanza di pazienza, ma che sono in realtà una maniera per sdrammatizzare il loro status quasi deifico. Robert Fripp un po’ ci è e un po’ ci fa: gioca pesantemente sulla figura del genio sregolato ed estraneo a tutte le regole di socialità, ma al di là di questa facciata si cela un personaggio scrupoloso. Fripp è un professionista esemplare, una persona che respira musica, poco interessato a porsi come figura carismatica e decisamente più avvezzo a prendere in mano la chitarra, suonare, comporre e dirigere. C’è affinità elettiva con le persone che gravitano intorno a lui in questa iterazione dei King Crimson: il trio di batteristi, Pat Mastelotto, Jeremy Stacey e Gavin Harrison (quest’ultimo ex-Porcupine Tree, facile intuire un’adorazione messianica per Fripp & co.); il fascinoso Tony Levin che si occupa delle basse frequenze; Mel Collins ai fiati; Jakko Jakszyk a raccogliere la difficile eredità di Lake; ma soprattutto Bill Rieflin, prima batterista e poi tastierista della band, deceduto nel 2020. Questo documentario ha il grande pregio di dare spazio proprio a Rieflin, all’epoca già consapevole dell’ineluttabilità della sua morte: Rieflin ruba la scena a Fripp – ovviamente in maniera positiva. È un uomo che ha accettato la propria fine e ha deciso comunque di dedicarsi alla musica fino all’abbandono delle forze. E che, nel suo stato, ha deciso che la morte non è niente di serio. Nel recensire questo film, il Guardian l’ha definito “un episodio di The Office con batterie monumentali, rodie attempati e un pubblico infervorato” – non mi sento di dar loro torto, e il merito della levità va attribuito in gran parte a Rieflin stesso e alla demistificazione della band. Uno sguardo dietro le quinte intenso, divertente, cinico e meditativo che rende giustizia ad uno dei gruppi più influenti del nostro tempo. Eugenio Palombella

SEEYOUSOUND 9

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