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IN STATO DI GRAZIA

24 Settembre 2022

a cura di Teho Teardo – Auditorium del Conservatorio F. Venezze di Rovigo

di Mirco Salvadori
foto live Anna Bechis
foto Teho Teardo – Anna Pajewski

Lo sguardo si perde alla ricerca di occasioni che possano al tempo stesso soddisfare il suo partner naturale, l’udito. Non è una questione da poco, in un paese che produce sempre meno incanto culturale, lasciandosi andare alla deriva tra cattedratiche e sontuosamente sponsorizzate celebrazioni musicali rigorosamente contemporanee e una pletora indiscriminata di strepitio non solo rock che, al pari del popolo italiano cui è rivolto, non riesce a fare i conti con il passato e con il presente, che del futuro manco se ne parla.

Ci voleva forse un luogo discosto, un angolo del devastato Veneto, terra di campi infiniti sui quali si alternano distese sconfinate di grigi capannoni. Ci voleva una città in disparte, un Comune come quello di Rovigo con la Fondazione Rovigo Cultura, che nell’ambito di RO-REgeneration – Festival di arti urbane rigenerative, realizzata in collaborazione con Wakeupandream, immaginasse un ‘altro inteso come visione, suono, capacità e coraggio innovativo, ponendo il tutto nelle mani di un musicista ancora in grado di desiderare indipendenza e capace di modellare il progetto al fine di creare il primo appuntamento, la versione zero di un one day festival che potesse avvicinare chi fosse andato a vederlo a quella bellezza intesa, non come vuoto ed esausto contenitore mainstream del nulla, ma reale e impetuoso fenomeno capace di innalzare lo sguardo e l’udito dello spettatore alle soglie della beatitudine. La cura di questa creatura non poteva non essere affidata che nelle mani di Teho Teardo, a mio vedere tra i pochi illuminati artisti con uno sguardo e un udito che vanno ben oltre i ristretti confini di questa nostra piccola penisola.

Marta Del Grandi, Julia Kent, Marisa Anderson e Keeley Forsyth in ordine di apparizione, sono coloro che all’interno dell’auditorium di una città per molti lontana, isolata, poco reattiva ai sommovimenti culturali provenienti dall’esterno (e dall’estero), hanno creato il miracolo, trasportando il numeroso pubblico presente verso destinazioni poco frequentate e ben vicine all’appagamento del bisogno dai più non percepito ma di estrema intensità, il bisogno di sentirsi in Stato di Grazia.

Seduti nella sfumatura di luce che declina verso la penombra, iniziamo un racconto che, con il senno di poi, sosterrà il nostro immaginario per i giorni a venire.

Procedendo verso gli 8000 l’aria si fa via via sempre più rarefatta, si fatica a ossigenare i polmoni ma l’ampiezza e straordinaria bellezza del paesaggio fa danzare e cantare il respiro. La salita dai 1400 di Katmandu fino alle lontane immense cime che la sovrastano è dolcemente lenta, sussurrata, appena accennata dalla voce di una creatura fuggita dalla metropoli milanese, rifugiatasi in quei lontani luoghi per scoprire affascinanti disegni di esseri immortalati nella roccia da migliaia di anni o inseguire leggende appartenenti a terre lontanissime nel tempo e da quelle gelide cime. Il verso della Del Grandi è minimale, accennato, a volte dissonante, racchiuso in una vocalità che contiene modernità ma al tempo stesso vibra di echi arcaici che lo rendono irresistibilmente affascinante. ( https://martadelgrandi.bandcamp.com/ )

Un mare lontano, le sue onde si frangono con la medesima cadenza del nostro passo sul bagnasciuga di una spiaggia immersa nel crepuscolo. Il suono che ora ascoltiamo ci attrae, si trasforma in essenza necessaria al battito del nostro cuore che inizia a seguirlo mentre lentamente si sovrappone ad altri e altri ancora in costante crescendo iterativo. Il violoncello è il tramite, il nero strumento con il quale Julia Kent vive in simbiosi e da sempre traduce quanto di più intimo sfugge dalle sue dita che stringono, afferrano, segnano, dilatano con i loro movimenti la voce delle sue corde. Esplode di somma grazia e di severa tempesta, travolge come solo una bufera può travolgere, lasciando attonito e incredulo il navigante che ha avuto la fortuna di incontrarlo sulla propria rotta. Musica che si trasforma in intenso dialogo introspettivo, suono che colpisce a fondo al pari di lama affilata e intima carezza. Infinita magnificenza.

( https://music.juliakent.com/ )

E questo lento procedere verso il cuore della notte, a poca distanza dal Grande Delta, meglio non può essere descritto da chi i luoghi nei quali il silenzio sconfina a perdita d’occhio impara a racchiuderlo descrivendolo con gesti che scivolano sulle corde di una chitarra che sembra parlare e cantare con l’intensità che quei luoghi trasmettono. Marisa Anderson di Portland, Oregon con tutta la poetica dell’infinito racchiusa nell’impulso elettrico di una sei corde che sa commuovere, colpire, lacerare e stupire. Lo sguardo si fissa sulle dita che riescono a saltare di accordo in accordo senza la minima esitazione, sull’arpeggio che sostiene una melodia da sempre conservata nel DNA di chi ora ascolta estasiato, anche se il suo ricordo si perde nel tempo. L’America che riempiva i pomeriggi di un giovane attratto dal suono della prateria, dai traditional con il loro mesto dondolare del capo, gli occhi chiusi a immaginare vite impossibili da vivere. Marisa Anderson di Portland, Oregon che sa di poter inondare il tuo cuore di emozione usando uno stile solo suo, tradizionale e modernissimo allo stesso tempo, una poetica nella quale perdersi appagati, mentre una goccia di pioggia rubata al diluvio che ora scende sulla Pianura Padana, scivola con lenta devozione dagli occhi.

( https://marisaanderson.bandcamp.com/ )

Scende l’ombra, declina verso l’oscuro nel quale si capitombola in compagnia di Ben Frost, Yann Tiersen, Simeon Fisher Turner e Cosey Fanni Tutti, suoi compagni di viaggio nell’ultimo lavoro di remix tratti da Limbs, disco di Keeley Forsyth uscito a Febbraio. La performer, cantante e attrice inglese riesce a sospendere il tempo, lo fa con la lentezza estrema dei suoi movimenti mentre attorno, il tangibile viene dissolto nell’oscurità dalla sua danza interiore che adagio rapisce e annienta. I toni bassi della sua vocalità ricordano il dolce fraseggio vocale di Anohni ma è in altri luoghi che lei abita, il suo solido e oscuro minimalismo si può collegare ad artisti cullati dalla memoria come l’indimenticato, ai tempi Gordon Sharp anche se l’indefinita creatura di Harrogate usa di contro una poetica ben lontana dal nero impenetrabile della Fine urlata tanto cara al Cindy Talk del periodo gotico. Un ultimo incantamento che lascia attoniti, sperduti in dimensioni dalle quali con difficoltà si rientra.

Viviamo tempi di regressione anche culturale costante, in molti si aggrappano all’antico termine “controcultura” per dare un significato al momento artistico proposto ma gli anni ’70 sono lontani, molto è cambiato, forse tutto è irrimediabilmente mutato. Fare controcultura oggi non è rimestare nel calderone ed estrarre echi sfilacciati di punk, riverberi di morente rock, spasmodica ricerca di un passato da innestare nel presente. Se proprio vogliamo usare quel termine desueto, in questo triste periodo di abbandono culturale e della ragione, applichiamolo ad un progetto come questo messo in atto a Rovigo che unisce più linguaggi musicali innovativi confrontandoli tra loro, li fa eseguire nel presente del loro lessico e li traduce per esempio, nel classicismo di una giovanissima ensamble di archi capace di trasportarli in una ulteriore dimensione temporale: confronto, scambio, apertura, dialogo.

Rinnovamento, sperimentazione, inesauribile curiosità culturale, voglia di cambiamento e sconfinamento, tutto questo in una notte nella quale lo stato di grazia si palesa nei volti di chi è stato travolto dall’onda sonora che ora si disperde lungo campi infiniti sui quali si alternano distese sconfinate di grigi capannoni.

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