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Il Torino Film Festival è rock

Si è da poco conclusa la 33esima edizione del Torino Film Festival (TFF) che, come ogni anno, ha presentato una buona selezione di film a tema musicale. In ogni edizione del festival sono in programma da un lato documentari dedicati a musicisti o scene musicali e dall’altro film di fiction ambientati in contesti musicali.

Abbiamo già avuto modo di parlare su Rockerilla online del film di Julien Temple sui Dr. Feelgood, Oil City Confidential, proposto in apertura del TFF. Si trattava della giusta introduzione a quella che era l’anteprima italiana, molto attesa, del nuovo film di Temple su Wilko Johnson. Attesa che non è andata delusa poiché The Ecstasy of Wilko Johnson (UK, 2015) si è rivelato un film straordinario sulla vicenda umana che ha coinvolto il leader dei Dr. Feelgood. Nel 2013 a Wilko Johnson è stato diagnosticato un tumore al pancreas che gli avrebbe lasciato dieci mesi di vita. Il regista Julien Temple, che aveva conosciuto Wilko ai tempi del primo film, ha ripreso alcuni momenti della sua vita in quei giorni. Gran parte del film è quindi stata girata quando il protagonista pensava di essere prossimo alla morte. Una sensazione che ha provocato in lui una sorta di reazione estatica (e da qui il titolo del film) nei confronti della vita. Come ha spiegato il regista, presente in sala alla proiezione del documentario al TFF, The Ecstasy of Wilko Johnson non è un film sul rock ma un film sulla vita. In realtà, essendo la vita di Wilko indissolubilmente legata alla musica rock, diventa anche necessariamente un film sul rock, ma è vero che si tratta prima di tutto di un ammaliante canto poetico sulla vita. Bello e commovente, non lascia certo indifferenti. Con il taglio tipico delle opere di Temple, e in linea con quello di Oil City Confidential, un’alternanza tra interviste, immagini di repertorio, fotografie, film d’epoca e animazioni, il documentario racconta in primo luogo le sensazioni e le riflessioni di Wilko in quei giorni, ma anche le sue passioni di sempre, come la lettura dei classici della letteratura inglese, il suo tour d’addio, il bel disco con Roger Daltrey, le reazioni degli amici e ovviamente i Dr. Feelgood. Fino alla speranza quando gli viene comunicato da un suo fan, un medico che l’ha visto in concerto ed è stato colpito dalla sua energia, che forse poteva essere operato. Poi la rinascita dopo l’operazione e la graduale ripresa fino al ritorno sul palco.

Di ambientazione diversa è invece un altro documentario musicale presentato in anteprima al TFF. Prima che la vita cambi noi (Italia, 2015), per la regia di Felice Pesoli, è un racconto sulla Milano del periodo a cavallo tra la fine dei anni ’60 e l’inizio dei ’70. La scena beat, l’esperienza di Barbonia City, gli ideali, le riviste, le droghe psichedeliche, l’arte, i viaggi in Oriente, testimoniati da chi li ha vissuti. Anche in questo caso immagini dell’epoca sono alternate ad interviste attuali a musicisti e personaggi vari. Artisti come Matteo Guarnaccia, che accompagna la narrazione filmica con i ricordi e i suoi bellissimi disegni, musicisti come Umberto Fiori degli Stormy Six e Claudio Rocchi (alla cui memoria peraltro il film è dedicato), protagonisti come Dinni Cesoni, legata all’esperienza delle comuni, in particolare quella di Ovada, Gianni De Martino, fondatore della rivista “Mondo Beat” e Andrea Valcarenghi, fondatore della rivista “Re Nudo”, che ha dato al regista l’ispirazione per il titolo. Felice Pesoli, presente alla proiezione torinese, ha spiegato come il titolo del film sia la parte finale di uno slogan usato da “Re Nudo”: ‘cambiamo la vita prima che la vita cambi noi’. Una frase che ben riassume l’attitudine di quegli anni del mondo beat e hippie, non sono italiano, verso il cambiamento di sé stessi come primo passo per poter cambiare la società. Nessun intento rivoluzionario o violento. In Italia, come negli Stati Uniti dove il movimento hippie è nato, la strumentalizzazione politica, estremista e violenta, è stata indotta in un secondo momento ma non faceva parte degli obiettivi iniziali del movimento. Pesoli ha voluto realizzare questo film proprio come reazione polemica e antitetica rispetto all’immagine, spesso associata a quell’epoca, di rivoluzioni armate e anni di piombo.

Sul fronte invece dei film di fiction, oltre alla proposta, nella retrospettiva dedicata al cinema di fantascienza, del film Wild in the Streets (Usa, 1968) di Barry Shear, sono state proiettate un paio di gustosissime anteprime che rientrano in quello che viene definito cinema rock, ovvero il cinema in cui la musica rock non è solo colonna sonora ma si interseca alle immagini per creare una nuova forma di linguaggio cinematografico. Wild in the Streets è un classico della controcultura di quegli anni, il cui protagonista, Max Frost (Christopher Jones), è il leader di una band, The Troopers, che viene coinvolta nella campagna elettorale di un politico candidato al Congresso e, inneggiando al potere ai giovani e al voto per i quattordicenni, finirà per diventare egli stesso presidente degli Stati Uniti, decretando che tutti gli over 35 vengano rieducati con l’lsd.

Diretto dal prolifico regista cult, Sion Sono, Love & Peace (Giappone, 2015) è un fantasy ironico e divertente alla Tim Burton, che narra la storia di Ryoichi Suzuki (Hiroki Hasegawa), un timido e impacciato impiegato che sogna di diventare una rock star. E’ un sogno che non ha il coraggio di confessare a nessuno, così come il suo amore per una collega. Un giorno Ryo compra una tartarughina e da quel momento la sua vita comincia a cambiare. La piccola tartaruga è l’unica a cui può confessare i suoi sogni e la porta sempre con sé, ma ciò è oggetto della derisione dei suoi colleghi e, in un moto di stizza, la getta nello scarico del wc. Inutile dire che se ne pente subito e comincia a girare per strada urlando il nome della tartaruga, Pikadon. Scrive persino una canzone per lei e per una serie di coincidenze si trova a cantarla in strada insieme ad una band punk. Ad assistere al concerto c’è però un produttore discografico che rimane colpito dall’energia punk mescolata alla protesta sociale dell’invocazione della canzone. Pikadon è infatti il nome in gergo dato alla bomba di Hiroshima e il produttore, travisando completamente il significato del pezzo, dedicato non alla bomba ma a una tartaruga, vuole immediatamente ingaggiare la band. Ryo comincia così la sua scalata verso il successo che lo vede presto diventare una rock star internazionale, ma sempre con l’aiuto di Pikadon di cui nel frattempo seguiamo le vicende, ancora più fantasiose di quelle di Ryo. La vita sotto i riflettori però lo allontanerà dalle cose veramente importanti nella vita fino al momento in cui se ne renderà conto e dovrà fare qualche passo indietro. Un finale di buoni sentimenti per quello che viene considerato il film ‘natalizio’ di Sion Sono.

Altrettanto divertente è l’altro film rock presentato al festival, Moonwalkers (Francia, 2015), primo lungometraggio del regista francese Antoine Bardou-Jacquet, scritto da Dean Craig. Alla base del film vi è la teoria del complotto lunare secondo la quale il primo sbarco sulla luna nel 1969 è stato in realtà un falso e i filmati realizzati da un abile regista come Stanley Kubrick che aveva già abbondantemente usato gli effetti speciali nel suo film uscito l’anno precedente, 2001: Odissea nello spazio.

In Moonwalkers, dunque, la CIA incarica un suo agente di andare a Londra per proporre a Kubrick di realizzare quei filmati in cambio di una grossa somma di denaro. Si verifica però uno scambio di persona e l’agente Kidman (Ron Perlman) inconsapevolmente incontra in realtà Johnny (Rupert Grint), il manager sfigato di una rock band, The Yellow Blackguards, e un finto Stanley Kubrick, l’amico Leon, costantemente in acido. Siamo nella Swinging London e nell’ambiente hippie in cui i protagonisti si muovono circola ogni genere di droghe psichedeliche. L’agente Kidman, accortosi dello scambio di persona, ritrova Johnny e i soldi che gli aveva consegnato per il film e accetta, per non fallire nella sua missione, di far girare il film da un altro regista, un altrettanto strafatto amico di Johnny, venendo gradualmente assorbito da questo ambiente e coinvolto in esperienze lisergiche e psichedeliche assolutamente esilaranti per gli spettatori del film. Si ride per tutto il tempo in questa bella commedia, con qualche momento splatter e toni in bilico tra Il Grande Lebowski e Pulp Fiction. Colonna sonora dell’epoca.

Rossana Morriello

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