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ICÔNES

Scagli la prima pietra chi, nel cassetto più nascosto della propria anima non conserva un’immagine anche solo impressa nel ricordo, che rappresenta un punto fermo, un ideale mai rinnegato, una presenza sulla quale il tempo nulla può. Forse l’universo musicale rappresentato anche dalle pagine virtuali di questo sito, è il luogo dove più si raccolgono e incorniciano le famose icone, in altre epoche vere e proprie immagini religiose che la contemporaneità ha tradotto in simboli, vessilli da esporre sulle proprie bacheche social per distinguersi affermando l’appartenenza ad una scuola di pensiero o di ascolto soggettiva. 

Penetrare nello spazio disegnato da Tadao Ando, che ha saputo trasformare in ulteriore icona della città lagunare l’antico edificio di Punta della Dogana, è già un passo verso un’intensa esperienza non solo visiva ma anche fisica, sensoriale che abbraccia una forma di religiosità legata all’apparizione, apparentemente abbandonata ma che letteralmente esplode non appena ci si lascia alle spalle la luce e il clamore del Canal Grande, penetrando nella penombra del silenzio, invisibile struttura capace di sostenere l’intera collezione di opere esposte nelle diciannove sale di questo meraviglioso non luogo nel quale il minimalismo del cemento datato al primo decennio degli anni 2000, si fonde con il mattone risalente al XV secolo.

La domanda che si pone chi non appartiene all’area critica legata all’arte moderna e contemporanea si presenta puntuale ogniqualvolta si visita una mostra: riuscirò a comprendere il significato delle opere esposte o passeggerò passivo tra esse, lo sguardo perduto nell’eccessiva dimostrazione di linguaggi lontani, sconosciuti, cifrati, destinati ai pochi che riescono a comprenderli e decifrali. Una domanda se vogliamo auto assolutoria legata alla mancanza di impegno che serve per fermarsi e guardare con estrema curiosità, opere di per se stesse capaci di parlare, trasmettendo emozioni che anche in questo caso non sono mancate.

Descrivere le ottanta opere esposte, appartenenti a 30 artisti nati tra il 1888 e il 1981, è opera che solo un affidabile esperto con l’aiuto di un catalogo riuscirebbe a fare. Più interessante è cercare di penetrare in questa ennesima rappresentazione d’arte solo apparentemente sospesa in una realtà altra, riuscendo a ricevere i segnali inviati con il linguaggio universale della percezione soggettiva, cosa che subito entra in azione non appena varcata la soglia della prima sala o dello Spazio Magnetico a cui seguiranno: le Sale da Meditazione, della Morte e Resurrezione, dei Nuovi Rituali, dell’Ascesi. Luoghi che ci riportano a contatto con quell’anima che ancora custodisce le nostre icone.

È a contatto con queste opere che i timori dell’impreparazione svaniscono, succede quando l’opera esposta inizia a dialogare con il visitatore spingendolo nel territorio della spiritualità, inducendolo a soffermarsi nell’immobilità della meditazione. Succede dinnanzi alla prima opera iconica firmata da Lucio Fontana che si incontra. Nella semioscurità si va alla ricerca del più piccolo foro sulla tela che permetta l’inizio della migrazione incorporea attraverso la sostanza stessa delle opere esposte. Si varcano i confini maestosi di Ttèia, installazione di Lygia Pape che occupa tutta la prima sala dell’esposizione. Si oltrepassano invisibili i mille sottilissimi filamenti che la compongono piombando nella casa abitata da Francisco Goya nel periodo della sua malata vecchiaia. Il buio assoluto ci aiuta a penetrare nel video, opera di Philippe Parreno che nella sua Quinta del Sordo trascina il nostro sguardo a contatto con la sostanza dei quattrodici dipinti intitolati Pitture Nere, dai quali ne usciamo decisamente provati. Effetto di un field recording e di un lavoro di digitalizzazione dell’immagine video talmente denso che riesce a impressionare. La stanza di decompressione si trova più avanti e si intitola Prime, una installazione sonora di Camille Normentche più di ogni altra presente in questa mostra, aiuta a comprendere la valenza del Suono. Un suono che si espande nella sala ma anche e soprattutto attraverso il legno delle panche sulle quali i visitatori sono invitati a sedersi o stendersi, ricevendo le vibrazioni dovute al riverbero da loro stessi creato. Esperienza sublime o dolorosa di consistente intensità.

Si prosegue sospesi nella meditazione, mentre lungo le mura esterne del Cubo centrale scorrono le frasi di un dialogo tra due icone della cultura mondiale: Jean Paul Sartre negli ultimi anni della sua vita e Simone de Beauvoir. Un’opera questa di Joseph Kosuthcreata appositamente per la mostra che indubbiamente attrae e accompagna il visitatore nel labirintico percorso attorno al nucleo della struttura espositiva inducendo a pensare alle parole scritte dallo stesso Kosuth nel lontano 1969, “può essere che, dopo la filosofia e la religione, l’arte sia un tentativo per soddisfare i bisogni spirituali dell’uomo”.

Non mancano comunque i passaggi dedicati al significato criptico delle opere esposte, una su tutte The Philosophical Nail di James Lee Byarsnella quale l’artista espone un chiodo dorato all’interno di una teca in mogano. Un invito al gioco del rebus, il fin troppo evidente link legato alla religiosità cristiana e al dolore. Ad ognuno il compito della traduzione mentre, sala dopo sala, ci si ritrova magicamente all’interno di una capanna costruita con argilla, terra, erbe e polvere di marmo. Mothabeng è un’opera dell’artista sudafricana Dineo Seshee Bopape che, per l’ennesima volta all’interno di questa notevole mostra, riesce a penetrare i nostri sensi con la percezione degli odori, del suono proveniente da picole casse che diffondono il noise prodotto in una cava di marmo, dalle fessure che fanno intravvedere la luce altrimenti inibita in questa piccola struttura situata ai margini del nostro immaginario.

Ci stiamo avvicinando alla fine del viaggio quando, come un pugno ricevuto direttamente allo stomaco, appare una delle opere più iconiche presentate giusto un anno prima dello scoccare del secondo millennio: La Nona Ora di Maurizio Cattelanin assoluto il più “pop” tra tutti gli artisti presenti in questa collezione che ripropone il povero papa Giovanni Paolo II investito da quel meteorite che per sempre lo sovrasterà, così come dominerà la nostra idea di icona se pensata nei confronti di un geniale artista capace renderci partecipi delle sue più discusse, geniali, furbe e intense opere. “Il papa è più che altro un modo per ricordarsi che il potere, qualunque potere, ha la data di scadenza come il latte”. (Maurizio Cattelan da un’intervista del 2005 di Abdrea Bellini su ‘Sculpture’)

Giusto il tempo di salire nello spazio che si ricorda angusto del Torrino per l’ultimo assaggio di questo viaggio per certi versi al limite del metafisico ed eccoci nell’irrealtà sospesa firmata dall’artista sud coreano KimsoojaEsclusivamente realizzata per la mostra ICÔNES con pellicole a reticolo di diffrazione e specchi di vetro sui quali si stende un mandala sonoro composto da canti tibetani, gregoriani e islamici. Si procede nel capogiro costante, con il pavimento che riflette l’altezza della torre e sospende le immagini, comprese quelle delle figure che lentamente attraversano questo indefinito spazio nel quale i confini non hanno più definizione, dove anche il lento salmodiare di diversa provenienza appartiene ad un’unica matrice, quella del distacco e della concentrazione per il raggiungimento di un bene superiore.

Prima di uscire ci attende la cattedrale del silenzio e della luce opera di Roman Opałka dentro la quale la sue voce scandisce una serie di numeri, quasi ad indicare il tempo e il suo passaggio contro il quale nulla possiamo se non creando testimonianze che un giorno forse, si trasformeranno in icone. Mirco Salvadori

ICÔNES Venezia Punta della Dogana 02.04.23 | 07.01.24

NELLA FOTO: Stingel_Untitled_2009

Rudolf STINGEL, Untitled, 2009

Electroformed copper, plated nickel and gold, stainless steel

120.5 x 114 x 4.5 cm

Photo by Alessandro Zambianchi, Courtesy of the artist

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