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GOD IS AN ASTRONAUT

Segrate (MI), Circolo Magnolia | 12 Settembre

 

Ci resta giusto il tempo di percorrere la strada verso l’ingresso prima di riconoscere le inconfondibili note di synth di When Everything Dies: sono le 22.15 e quattro figure compaiono sul palco nell’ombra, sfatando il mito delle lunghe attese che il Magnolia generalmente riserva. I motivi per restare sorpresi ci sono tutti fin dall’inizio: i discepoli del Dio-astronauta, che da sempre chiamano con orgoglio le loro performance “full audio-video show”, suonano senza visuals. Nessuno schermo, nessun corredo alla musica: solo una batteria, un basso, due chitarre e un paio di synth. E la seconda sorpresa è che il titolare di questi ultimi – il vivacissimo Jamie Dean, che più di una volta nel corso della serata tenterà di sfoggiare un discreto italiano, suscitando la simpatia del migliaio abbondante di spettatori accorsi – imbraccia pure la seconda chitarra, quella lasciatagli in eredità da Gazz Carr dopo il suo precoce abbandono. 

Transmissions, il primo estratto dall’ultimo Origins, ispessisce i muri alzati dalle due chitarre e il groviglio dei synth facendo capire immediatamente come i due fratelli Kinsella abbiano deciso di puntare senza mezze misure sull’incattivire il loro sound: questa forse la giustificazione alla scelta (in tal senso azzeccatissima) di rinunciare alle visuals. La title track di All Is Violent, All Is Bright è un jolly giocato subito nonché, in coppia con la successiva Reverse World, il primo di pochi momenti lasciati al sogno. Gran parte di questi ultimi sono raggruppati nel finale della prima metà di show: sul quartetto formato dalla tensione elettronica di Spiral Code, dal crescendo del capolavoro Remembrance Day, dal tramonto tenue dell’altrettanto splendida The End Of The Beginning e dalla passeggiata solare di Fragile le emozioni si susseguono e sembra davvero di trovarsi trasportati in una dimensione spazio-temporale parallela. 

Una culla da godersi ad occhi chiusi lasciando che i brividi attraversino il corpo, prima di prepararsi a una serie imprevedibile di scossoni: primo fra tutti quello assestato da una Echoes al fulmicotone, e subito dietro quello ancor più stupefacente di una Calistoga totalmente rivoluzionata. Una direzione, questa intrapresa nella seconda fase del concerto, che non riscuote i favori degli amanti del sound più classico e pittoresco della band irlandese, ma che fa scatenare in men che non si dica la fetta più vivace e più giovane dei presenti, che presto si riversa sotto il palco. Quasi come in una trappola calcolata, però, dopo la bastonata i quattro cavano dal cappello la gemma strappacuore, una Forever Lost sentitissima e dilatata che resta senza mezzi termini l’apice dell’intera serata. Un’ultima concessione all’emotività prima che tutto sia pronto per l’esplosione definitiva.

Ad aprire le porte a quest’ultima mandando il pubblico in visibilio è Worlds In Collision, opener dell’album che prende il nome della band e storicamente tra i pezzi più hard del loro lotto: le chitarre distorte sfuriano sfiorando da vicino territori hard, raggiunti appieno nell’inedita Dark Passengers, assaggio del nuovo album in arrivo a fine anno e ipotetica prova del Nove sulle intenzioni heavy del quartetto. In mezzo, la coppia The Last March-From Dust To The Beyond cerca il compromesso per non scontentare chi dalle retrovie inizia a storcere il naso, ma al culmine dei crescendo scivola in una furia istintiva che travolge letteralmente pure il classico Fire Flies And Empty Skies, forse l’unico la cui poetica finisce per perdersi a causa della terapia d’urto. Tempo di lasciare il palco, sì, ma per meno di un minuto, quasi a voler stigmatizzare la pratica sempre meno sensata e spontanea del bis.

Quando il quartetto rientra, la maratona riparte come se non ci fosse stata alcuna interruzione, con una Red Moon Lagoon schiacciasassi e accolta dal pubblico con incredibile e stupefacente entusiasmo, sicuramente superiore a tutti gli estratti dall’ultimo Origins. Tutto pronto per il gran finale, ma non prima di un’ultima lacrima da versare su Suicide By Star, addirittura intenerita per inscenare uno splendido contrasto con l’epilogo affidato, manco a dirlo, al pezzo più potente dell’intera discografia degli irlandesi: Route 666. Qui è il delirio, l’apice del contatto tra band e pubblico, la prestazione più fisica di questi quattro astronauti trasformati di colpo in animali da palco. Una band che, al pari fra gli altri dei ai 65daysofstatic, riesce ancora a contrapporsi alla consuetudine – lanciata dai Mogwai ed ereditata da troppi gruppi affini al post-rock – dell’impermeabilità alla dimensione live.

Matteo Meda

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