EDITORS | Report live
Milano | Alcatraz | 10 ottobre 2013
Certe volte vien da chiedersi se è mai esistito o potrà mai esistere il concerto perfetto. E la risposta, dopo averne visti più di un tot, si costruisce da sé, impietosa quanto rassicurante: no. E la ragione è una, semplice ed intuitiva quanto non così immediata da ricavare: l’imperfezione è, di fatto, la differenza prima tra una performance dal vivo e un’esecuzione in studio, quel qualcosa che rende ogni concerto un’esperienza unica, irripetibile. Ve la immaginate, una band che ripropone il disco per filo e per segno senza alcuna variazione, senza alcuna imperfezione? In realtà, di casi simili ce ne sono eccome, e sono quelli che normalmente deludono di più. Ma allora qual’è la ricetta per realizzare un concerto che tenda il più possibile alla perfezione? Anche a questa domanda non esiste una risposta oggettiva, valida per tutti, unica, perché ad entrare in gioco sono stavolta una miriade di fattori in grado anch’essi di differenziare ogni performance: il genere proposto dall’artista, la sua capacità tecnica in contrasto o conciliazione con quella emotiva, le aspettative dell’audience a sua volta differenziate addirittura fra i singoli spettatori, ciascuno alla ricerca di qualcosa di diverso legato con tutta probabilità a fattori strettamente personali (dal gusto al legame tra musica e immagini, situazioni, eventi).
Per chi scrive, per esempio, la musica degli Editors ha da sempre un significato decisamente più emotivo che teorico: prima ancora che i paladini secondi (o terzi, poco importa) del revival new wave, dopo Interpol e (forse) Bloc Party, Tom Smith e compagni restano gli autori di una musica in grado di purificare, di spazzare via ogni negatività, di trasportare – con la facilità di refrain da estasi, una chitarra (ormai persa con l’addio di Urbanowicz) funambolica e una voce straordinaria – in una dimensione che paladini delle arene altrettanto adorati come Coldplay e U2 si sognano. E proprio per questo, in una percezione puramente soggettiva, quello degli Editors è un canzoniere che dal vivo era destinato in partenza a soddisfare, ad abbattere quell’impercettibile ma inevitabile barriera intenta a contenere da sempre – ad eccezione dello splendido In This Light And On This Evening – il potenziale emotivo dei loro brani. Il punto è che la sera del 10 ottobre gli Editors non si sono limitati a suonare dal vivo, con i conseguenti vantaggi che la natura della loro musica avrebbe ottenuto dalla dimensione live, ma sono arrivati a sfiorare letteralmente il concerto perfetto, a far collidere perfezione tecnica e una dose di cuore incredibilmente massiccia, comportandosi come se un Alcatraz in sold out fosse San Siro, ma senza quel pelo di mestiere che tutti o quasi gli animali da stadio portano in dote alle loro esibizioni.
Nulla avrebbe potuto fermare gli Editors, quella sera. Nemmeno la tempesta che ha messo Milano a ferro e fuoco in un battibaleno, scatenandosi nel giro di cinque minuti all’ora di cena, bloccando i mezzi pubblici che portavano nei pressi della discoteca (ma ha ancora senso, con tutti i concerti che ospita, definirla tale?) e impedendo a una buona metà degli spettatori che sarebbero poi stati presenti di gustarsi la performance d’apertura dei belgi Balthazar. Una sorpresa davvero bella anche per chi – come il sottoscritto – si è potuto gustare solo tre degli otto pezzi in scaletta: carichi, dinamici, decisamente più energici che in studio, intenti a trasformare il loro indie-pop in un rock non estraneo a qualche tinta gaze. È in particolare il pezzo di chiusura, Blood Like Wine, proveniente da Applause – primo album della band che sta invece promuovendo il recente secondogenito Rats – a restare impresso fungendo da perfetto portale all’ingresso, di mezz’ora successivo, del quintetto inglese, che schiera due new entry, ovvero il nuovo chitarrista Justin Lockey e Elliott Williams, tastierista full-time che mancava alla band dagli inizi di carriera.
Mentre a Milano imperversa la tempesta, tra le mura dell’Alcatraz sono le eleganti ed oscure asperità di Sugar ad inaugurare una serata che parte già alternando il presente da rock arena dell’ultimo The Weight Of Your Love con le memorie wave del passato, rappresentate subito dopo da una Someone Says sorprendentemente familiare a gran parte dei presenti. Il primo acuto a mandare l’audience in visibilio arriva con Smokers Outside The Ospital Doors, la cui estasi viene amplificata in crescendo sino all’unisono da pelle d’oca del finale. Sulla scia lasciata da quest’autentica cometa riescono a trovare acclamazione anche la meno nota Bones e la marcia piano-cibernetica Eat Raw Meat = Blood Drool, prima dimostrazione dell’eccellente resa sul palco degli estratti dallo splendido In This Light And On This Evening. La conferma di quest’ultimo dato arriva poco dopo con You Don’t Know Love, guidata dalla struggente interpretazione vocale di Smith e dal magistrale duetto tastieristico di Williams e Russel Leetch, binario per il primo battimani dei cinquemila dell’Alcatraz, in precedenza meno a loro agio fra le piaghe malinconiche di Two Hearted Spider.
Se questa prima e già grandiosa metà di concerto si è soffermata sul lato meno popular e più emotivamente complesso del repertorio Editors, è nella seconda che la maggior parte dei classici vengono infilati in soluzione di continuità. Ad inaugurarla è un trio magico formato da All Sparks, Formaldehyde e il singolo A Ton Of Love che trascina il pubblico in cori, claps e salti. Ed è soprattutto la terza ad uscire rinvigorita dalla cura on stage, a perdere quasi del tutto quella patina grezza e tanto (troppo) U2 per trasformarsi in cavalcata irresistibile al grido univoco di “desire”. Like Treasure è costretta suo malgrado a fungere da ponte, da “sosta” prima dell’esplosione: ma il sublime apice romantico della produzione della band non rinuncia a strappare qualche lacrima ai fan più sensibili, e a condurre a suon di palpitazioni alla successiva supercoppia, An End Has A Start e Bullets: in particolare è la prima a toccare nel profondo grazie ad un’inedita carica psicodrammatica e alla prestazione superlativa di un Lockey che riesce qui in toto a non far rimpiangere Urbanowicz.. L’ingresso nel buco nero della title track di In This Light And On This Evening rappresenta forse la vetta dell’intera performance: oscura e sensuale prima, scatenata e turbolenta poi, assistita dagli effetti luminosi di flash a sembrare quasi veri fuochi d’artificio.
L’esplosione è siderale, lascia tutti a bocca aperta, attoniti, increduli, quasi distratti durante la successiva The Phone Book eseguita in acustico. Siamo agli sgoccioli, al momento della verità, quello di Munich e The Racing Rats. Ed è l’apoteosi, come a buttarsi nel vuoto dalla vetta che si è appena finito di scalare, lo sfogo definitivo dell’energia accumulata durante l’ora e mezza precedente. La prima è un serpentone di contrasti, luci e ombre che si sostituiscono di continuo, bagliori di una luna lampeggiante per le vie di una metropoli in blackout con Lockey di nuovo a svettare. La seconda resta il capolavoro, la corsa folle di Tom Smith ma anche dell’audience al gran completo, l’Alcatraz che si trasforma in Wembley e gli Editors che sembrano davvero poter raccogliere l’eredità degli U2. Honesty chiude, in una versione più muscolare e meno Springsteeniana, meritevolissima ma che non trova gran riscontro dopo una simile parade. Il bis non è nemmeno invocato, arriva da sé nel giro di pochi minuti: a guardare il pubblico sembra non ci siano più energie, ma le tastiere scintillanti di Bricks And Mortar sono qualcosa di nuovamente irresistibile, un omaggio a Gary Numan e John Foxx che parte mansueto e sereno per poi crescere sempre più riaccendendo la fiamma fino a farla ardere quanto e più di prima. Nothing prende ritmo rispetto all’originale ma resta intermezzo per accendini e cellulari, ultima sosta prima della deflagrazione: Papillon, e basterebbe già il nome a dire tutto. Smith che scende fra il pubblico, tastiere (questa volta tre) che sfrecciano in incontro-scontro, scintille che illuminano l’iperspazio raggiunto due canzoni prima, una battaglia ipergalattica che impera, in cinquemila a saltare come se non ci fosse gravità.
Il tutto prolungato per quasi dieci minuti, quasi come se il concerto perfetto non dovesse avere una fine. Un momento, si era mica detto che il concerto perfetto non esiste?
Matteo Meda