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Editors, live @Fabrique Milano

Milano, 20.10.2022

Questo articolo proverà ad essere, non riuscendovi affatto, l’ordinario resoconto di una performance live. Molto più verosimilmente, diventerà una riflessione sgangherata su come si possa uscire da un concerto con le ossa rotte, pur senza avere minimamente pogato.

Il prevedibile insuccesso dell’impresa di scrivere un chirurgico e ineccepibile live report con tutti i suoi sacrosanti crismi e tecnicismi (ammesso che abbiano senso) nasce da un ostacolo di fondo: gli Editors sono indissolubilmente legati a un’epifania esistenziale di chi scrive.

Facciamo un salto indietro: Roma, anno 2005. Doveva essere un venerdì sera, ricordo giri infiniti in macchina con una DJ autoctona che ci faceva da cicerone alla scoperta dei locali dark della capitale. Incastrammo 2 o 3 serate (tutte in una notte), dal Testaccio al Lido di Ostia. Ricordo un mio scetticismo iniziale, della serie “ok, ci faranno ballare i Joy Division, i Bauhaus e i CCCP” (prospettiva di per sé allettante – sia chiaro, ma nulla di nuovo rispetto a quanto già fatto in precedenza, con quel romantico anacronismo delle serate impropriamente chiamate gothic-wave un po’ belle e un po’ paracule che si trovano pressoché ovunque, oggi come allora). 

E invece no: varcata la soglia di un posto molto fetish e decadente di cui non ricordo assolutamente il nome, sentii risuonare le note di una canzone che non avevo ancora mai ascoltato. Era Munich degli Editors. Era ancora il tempo in cui la musica la scoprivi nei luoghi fisici, non in quelli virtuali (non è una cosa boomer da dire, è una cosa da millennial). 

Avevo vent’anni e m’innamorai di quel suono e di quella voce, soprattutto m’innamorai del fatto che un gruppo degli anni ‘2000 potesse suonare così. Li seguii incostantemente per i primi tre dischi, poi li persi un po’ di vista, prendendo atto di un progressivo sfilacciamento delle intenzioni originarie. Non che quest’aspetto sembrasse pregiudicare il successo della band, che anzi vedeva crescere in maniera esponenziale il suo seguito (per giunta continuando a sfornare dischi che apparivano palesemente inferiori ai primissimi, ma si sa: il giudizio del pubblico è qualcosa di assai sfuggente e indecifrabile). 

Veniamo ai giorni nostri: Milano, 2022. Arrivo tardi al concerto degli Editors. Tardi in tutti i sensi: perdo tempo a cercare parcheggio ed entro che il live è già iniziato. Ma tardi anche perché arrivo al concerto degli Editors avendo ancora in mente quella mia epifania del lontano 2005. Trovo un Fabrique colmo all’inverosimile, tanto che devo accontentarmi di restare nelle retrovie, rinunciando ad avanzare. Tom Smith e soci sono lanciatissimi: dispensano baci e parole affettuose. Il live è partito con una doppietta dal loro ultimo, divisivo album EBM (c’è chi ne ha lodato l’ardire elettronico e chi ne ha criticato la produzione dopata, per non dire tamarra); poi si approda ai lidi tranquilli del 2007 con Bones. Quest’alternanza provoca in me una sensazione che si rincorrerà per tutto il concerto: un senso di vaga familiarità costantemente minato da un senso di pesante estraniazione. Perché sentire in sequenza le canzoni avvicendatesi in quasi 17 anni di carriera, con una netta prevalenza – per ovvie ragioni – della produzione più recente, determina uno sconquassamento dei propri riferimenti emotivi.

La gente balla, si diverte, fa festa. Io non capisco. Scrivo a uno stimato collega in un momento di scoramento, quando dei synth un po’ troppo muscolari (per non dire cafoni) prendono definitivamente il sopravvento sugli eleganti riff effettati che mi legano a questa band (o, meglio, al suo ricordo). Devo avergli detto in chat qualcosa di allarmante a proposito di un baratro esistenziale che mi si spalanca proprio lì davanti, mentre la gente batte le mani in continuazione, manco fossimo a una serata di Claudio Cecchetto negli anni ’90, manco fossimo al concerto dei peggiori Coldplay mashati con gli Imagine Dragons. Lo stimato collega mi esorta a non essere una drama queen come mio solito, ma solidarizza. 

Mi emoziono per una versione acustica di Nothing, che quantomeno mi restituisce quel vago senso d’inquietudine e oscurità di cui a quel punto ho un disperato bisogno, ma l’incantesimo finisce in fretta: dopo una manciata di brani dal sapore più consolatorio, arrivano Kiss e Strange Intimacy a scuotermi nuovamente, catapultandomi da capo in un rave per educande.

Munich la suoneranno negli encore, ma anche allora sarà troppo tardi: dissolto anche l’ultimo brandello di romanticismo, riscontrerò un’esecuzione quasi svogliata, decisamente meno convinta delle altre. 

Guadagno l’uscita convinta che non riuscirò a scrivere un live report, ma al massimo uno sproloquio umorale sul fatto che la musica degli anni ‘2000 è veramente finita, e non troppo bene. La cosa grave è che lo sapevo già, ma forse non volevo crederci.

In apertura: THE KVB

(Testo di Valentina Zona / Foto di Loris Brunello)

Setlist

Heart Attack

Strawberry Lemonade

Bones

Karma Climb

Picturesque

In This Light and on This Evening

Sugar

Magazine

All Sparks

Vibe

The Racing Rats

Frankenstein

Nothing (acoustic)

All the Kings

Blood

Smokers Outside the Hospital Doors

Kiss

No Harm

Strange Intimacy

Encore:

An End Has a Start

Munich

Papillon

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