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DEPECHE MODE

Milano, Stadio G. Meazza San Siro

18 Luglio 2013

Il concerto dei Depeche Mode a San Siro era l’evento dell’anno prima ancora di svolgersi. Forse più della data che, quest’oggi stesso, la band terrà a Roma. Perché San Siro – per quanto ormai da tempo vittima dello sciagurato provvedimento del Comune riguardo la soglia limite dei decibel e delle incomprensibili rimostranze dei “residenti” – è forse in Italia il luogo per eccellenza dei grandi eventi, quello dei concerti memorabili. E poco importa se l’acustica già di per sé dispersiva rappresenta ora un handicap di proporzioni copiose, o se gli steward impediscano al pubblico del primo anello rosso di muovere mezzo passo oltre la propria seggiola. San Siro resta San Siro, lo stadio dei grandi sold out, quello che sa fare da specchio all’Italia musicale, quello in cui si sono svolti i concerti più memorabili, che quando si riempie è sempre “il pienone a San Siro”. Se a ciò aggiungiamo che i Depeche Mode sono, piacciano o meno, una di quelle band in grado di trasformare ogni loro esibizione in un evento memorabile, troviamo la ragione per giustificare la premessa precedente.

 

Ma queste falle di non poco conto si sono trasformate in autentici dettagli trascurabili dinnanzi alla performance di Gahan, Gore e Flecther, assistiti anche questa volta da Christian Eigner alla batteria e Peter Gordeno alle tastiere. E dunque, il concerto dei Depeche Mode a San Siro è stato il concerto dell’anno. Pochi fronzoli, un palco addobbato al minimo indispensabile e una band che non suonava così coesa e scatenata da tempo: questi gli ingredienti che hanno reso la serata irresistibile dalla prima all’ultima nota. Ogni singolo componente ha la sua parte di merito in una performance che ha fatto della perfezione una caratteristica: Fletch impeccabile nel gestire i soundscape elettronici, un Eigner in versione metronomo, Gore privo di trucco e vestiti istrionici ma concentratissimo regista in compagnia della sua chitarra. E poi Dave Gahan, che a cinquant’anni suonati sta vivendo uno dei momenti di forma maggiori della sua carriera. Salta, si contorce, chiama il pubblico e le urla delle fan di tutt’età a suon di pose che definire erotiche è tutto fuorché esagerato. Come mai in passato la sua voce passa da bassi cupi e sinuosi ad acuti che forse nemmeno lui sapeva di riuscire a raggiungere. Irresistibile, instancabile, irrefrenabile.

 

Sono circa le sette quando la serata prende il via fra le scariche elettro-rock dei Motel Connection, band formata da Pisti, Samuel e Pierfunk, rispettivamente disc jockey, voce ed ex basso dei Subsonica. Trattasi di una sorta di prosecuzione dell’esperienza più house-oriented della band torinese (quella, per intenderci, di Amorematico) che diletta per mezz’ora presentando una manciata di brani dall’ultimo album Vivace. Il pubblico reagisce freddamente nonostante l’ottima fattura della proposta, mentre decisamente più successo hanno verso l’ora di cena i Chvrches (si legga Churces), con il loro elettro-pop figlio dei Knife pronto a debuttare sul mercato discografico a settembre, quando è prevista l’uscita del loro The Bones Of What You Believe. Al termine della loro esibizione, deve trascorrere solo un quarto d’ora prima che i Depeche Mode, puntualissimi, varchino la soglia del palco sulle note di Welcome To My World. Un Dave Gahan elegantissimo in giacca scura spezza con la sua voce l’atmosfera sospesa di un benvenuto mai così intenso, prima di dare subito sfoggio del suo stato di grazia in una Angel a fior di pelle, la cui sofisticatissima tensione non è resa al top dall’acustica “misurata” dello stadio. La dimensione live non fa che confermare l’elevatissimo valore dell’ultimo Delta Machine, benché il pubblico sembri non aver ancora assimilato un disco effettivamente complesso e non certo immediato. Siamo appena all’inizio ma è già la volta del primo classico: Gahan si libera in fretta della giacca prima di immolarsi in Walking In My Shoes, trascinante epica ed intensa come sempre, capolavoro che risuona con Gore mattatore alla chitarra.

 

La scelta è decisamente quella di una prima metà di scaletta incentrata sui pezzi più carichi emotivamente: i brividi non calano quando la tastiera di Gordeno annuncia Precious, toccante e delicatissima, con lo stesso Gahan a tenere a bada la sua esuberanza. L’oscurità invade San Siro e dopo l’ingresso nel tunnel è la volta dell’abisso di pece di Black Celebration, prima novità della serata, brano chiave per la storia della band da tempo escluso dal loro repertorio live e per questo forse un po’ dimenticato dalla gran parte del pubblico. A tornare a scaldare la platea è invece Policy Of Truth, altro pezzo strepitoso troppo spesso dimenticato dal novero dei classici, prima della “pausa” di una Should Be Higher decisamente più intensa della versione in studio. Barrel Of A Gun è la seconda novità, impietosa e avvinghiante, in grado di stringere l’audience in una morsa anche grazie alle movenze quasi erotiche di Gahan, prima della parentesi acustica dove Gore impugna il microfono per la dimenticata Higher Love e la sorpresa di una Shake The Disease dal sentore romatico per solo piano-voce. Ma il cuore del concerto arriva con gli ultimi due singoli che fanno esplodere lo stadio: Heaven e soprattutto l’acclamatissima Soothe My Soul, con il prato che si scatena guidato da un Dave in versione lap dancer e il pubblico degli anelli che cerca disperatamente di raggiungere i parapetti nonostante la sfrenata resistenza degli addetti alla security. A Pain That I’m Used To, altro rientro in scaletta dopo l’esclusione nel Tour Of The Universe, viene proposta nella versione remix di Jacques Lu Cont, perdendo gran parte della sua energia ma non il suo fascino.

 

I sessantamila di San Siro sono però ormai scatenati e la martellante A Question Of Time porta l’intero parterre a saltare senza sosta, fino alla boccata di fiato della più mansueta Secret To The End, ingiustamente ma comprensibilmente ignorata da molti. La fase finale è un’autentica apoteosi: in una successione mirabilante arrivano prima Enjoy The Silence e poi Personal Jesus, cantate a squarciagola da tutto lo stadio su incitazione continua di un Gahan per nulla affaticato. Sono i soliti classici intramontabili, fili che collegano un pubblico generazionalmente eterogeneo unendolo in un unico coro, effetto che ben pochi altri gruppi riescono oggi a scatenare. I tempi tecnici imposti dalle ordinanze comunali fanno sì che il dentro-fuori per il canonico bis diventi un pro-forma di due minuti scarsi: quando i riflettori si riaccendono davanti al microfono c’è di nuovo il solo Gore, pronto ad una Home da brividi e lacrime con la già sperimentata coda corale del pubblico. Gahan rientra per Halo che funge da anticamera ad un finale inaspettato e catartico: quando il cielo si rischiara e il synth di Fletcher attacca con la sequenza di Just Can’t Get Enough il tripudio è alle stelle, l’intero stadio si trasforma in una dancehall e pure quei pochi che erano riusciti a rimanere fermi si gettano in un ballo compulsivo. L’onda sta per arrivare a riva, ma prima c’è ancora tempo per un cambio d’umore viscerale: furente, graffiante e malsana, I Feel You è trascinata da un Gahan ancora una volta mattatore, che approfitta del pezzo più “hard” del lotto per dar sfoggio all’armamentario di muscoli mandando in visibilio la componente femminile (e non solo) dei sessantamila presenti. La chiusura è tradizione, storia, catarsi: Never Let Me Down Again è un inno che risuona nelle orecchie prima ancora di iniziare, che fa spendere le poche energie e la poca voce rimasta, che fa esplodere una volta di più San Siro.

 

E quando, fra urla e scrosci di applausi, Dave abbandona per ultimo il palco, l’impressione è quella di essersi appena svegliati da un sogno. Che nonostante la voce ormai fioca e le energie in corpo quasi nulle, chiunque sarebbe stato pronto a continuare ancora a lungo. Che gli stessi Depeche Mode avrebbero potuto, chissà, forse voluto, andare avanti ancora. Serve del tempo per metabolizzare e accettare l’idea che sia davvero finita, per riuscire ad averne abbastanza. Che, pochi dubbi, è stato davvero il concerto dell’anno.

Ed è allora che l’analisi prende il sopravvento sull’emozione: difficile dire se mai il terzetto abbia raggiunto in passato una forma comparabile a quella odierna, sia musicalmente che emotivamente. Dopo un disco meraviglioso, un concerto da antologia. Nella speranza che tutto questo possa davvero andare avanti, negli anni e nelle date a venire. In Italia avremo modo di rivederli a febbraio dell’anno prossimo, e di sicuro ci saremo. Perché no, we just can’t get enough!

Matteo Meda

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