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DEATHCRUSHER Bologna

HEROD + VOIVOD + NAPALM DEATH + OBITUARY + CARCASS

Bologna | Estragon | 17 novembre

Centro sociale occupato “Forte Prenestino”, 1990. La prima in assoluto dei Carcass in Italia finisce in una megarissa tra la band e il pubblico, infastidito dall’atteggiamento scostante di Amott e soci. Dopo aver reagito male all’ennesimo stage diving, la band diventa bersaglio dei presenti e dopo appena tre brani, il palco si trasforma in un ring, tra strumenti a corde agitati a mo’ di clava e una vera e propria invasione del palco che costringe i quattro a darsela a gambe.

Altri tempi. Oggi, Bill Steer e Jeff Walker, rimasti gli unici superstiti della prima formazione, hanno superato i 45, sono dei professionisti alla prima reunion e di risse non ne vogliono sentire neanche parlare. Tantomeno il pubblico dell’Estragon, pacifico e compiacente, formato per metà da ragazzi che nel ’90, se erano nati, avevano superato da poco la fase dello svezzamento.

Ma andiamo con ordine, anche perché il Deathcrusher Tour non è stato solo Carcass, anzi. Concepito come una maratona di metal estremo, il concerto è iniziato alle 19, un orario proibitivo per chi, di martedì a quell’ora è appena uscito dal posto di lavoro. Ne hanno fatto le spese i poveri Herod, costretti a suonare davanti ai pochi presenti riusciti ad accorrere a quell’ora, e i Voivod, che avrebbero meritato più spazio e ben altro minutaggio, rispetto ai quaranta minuti concessi, sufficienti ad inserire in scaletta appena otto brani. Quando il locale sta cominciando a riempirsi è già tempo di saluti per Tennis Bèlanger e soci, sulle note di Voivod. Di bis neanche a parlarne: sono appena le 20,30 ed è già tempo di preparare la scena per la prossima performance, forse quella più attesa. Ma quando i Napalm Death salgono sul palco, sono in tanti a strabuzzare gli occhi: chi è quel ragazzo bruno che prende in mano il microfono e che potrebbe essere il figlio di Greenway? Ci pensa Shane Embury a chiarire ogni dubbio: Chris Reese della band grindcore inglese Corrupt Moral Altar canterà al posto di Mark “Barney” Greenway, assente per un paio di date del tour a causa di imprecisati motivi. Un vero peccato, anche se la presenza di Reese, con le sue urla graffianti e incomprensibili finisce perfino per avere un senso quando ricorda lontanamente gli “scream” e i “growl” di Lee Dorrian. Tutto fila liscio, quindi, quando si tratta di eseguire brani tratti da Scum. Funzionano anche i siparietti sui 5 secondi di You Suffer e le sfuriate hardcore di Life e Deceiver. Difficile, però, non far rimpiangere la voce di “Barney” quando la band si sposta verso sonorità più vicine al death metal: Suffer the Children, così come i molti pezzi scelti dall’ultimo album Apex Predator – Easy Meat, hanno tutt’altro sapore cantate da Reese. Alla fine, tutti contenti di aver pogato alla grande, ma con l’impressione di aver assistito a qualcosa di ben diverso da quello che ci si aspettava.

I più fedeli al verbo del death metal si sono dimostrati gli Obituary, assenti nell’edizione australiana del tour. Quello della band di Tampa è stato uno show diviso nettamente in due parti. Dopo un’ampia presentazione dell’ultimo album Inked in Blood, i fratelli Tardy e Trevor Peres, insieme alle new entry Kenny Andrews e Terry Butler, si sono tuffati nel loro passato più glorioso: Dying, Find the Arise, ‘Til Death, Don’t Care e Slowly We Rot, suonate una dopo l’altra, hanno lasciato una piacevole sensazione di stordimento, al culmine di performance molto convincente.

Neanche il tempo di riprendersi, che Jeff Walker, Bill Steer, Daniel Wilding e Ben Ash sono già sul palco, accompagnati dalle note dell’intro 1985, pronti a colpire il pubblico con il loro acciaio chirurgico. Inevitabile che Surgical Steel occupi buona parte della scaletta, ma non è un bene: l’ultimo album dei Carcass non convince né in studio né dal vivo. Molto meglio quando la band torna ai tempi di Heartwork o quando si immerge nella putrefazione delle origini con Exhume to Consume, Reek of Putrefaction e Genital Grinder. Musicisti impeccabili, i quattro onorano appieno il loro ruolo di headliner, con un’ora e mezza di aggressività sonora senza tregua. Poi, come Cenerentola, appena scoccata la mezzanotte, svaniscono nel nulla. Paura che l’incantesimo svanisca?

Daniele Follero

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