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COVER STORY DAFT PUNK

La rivoluzione cibernetica del terzo millennio

Nella terra dei robot

Ben poche sono le foto che ritraggono Guy-Manuel De Homem-Cristo e Thomas Bangalter privi di quei due caschi che sono divenuti negli anni il loro marchio estetico. Un paio di queste risalgono ai primissimi periodi e ci mostrano due ragazzini in erba come molti se ne vedono, volti che potremmo aver visto e non notato pochi minuti prima per strada, affacciati al balcone di casa, all’interno di un negozio o la sera prima ad un concerto. La più interessante e difficile da trovare li ritrae invece al cinema, seduti sulle poltroncine muniti di popcorn, in attesa che le luci si spengano e il grande schermo s’illumini. Sono due uomini prima di tutto, come hanno voluto rivelare dopo dieci anni passati a presentarsi come veri e propri robot. A chi chiedeva loro il perché di quei due caschi e di quelle tute, rispondevano che un giorno, dopo aver perso conoscenza a causa dell’esplosione di un campionatore nel loro studio, si erano accorti di essere diventati dei robot. La verità è che tuta e casco altro non sono se non l’espressione estetica di quel che i Daft Punk hanno rappresentato per la musica elettronica del post Novecento: il futuro nel presente. Un futuro nato e cresciuto sulle ceneri del passato, perché il maggior merito del duo parigino, a voler guardar bene, è stato quello di aver saputo portare sulla cresta dell’onda un ibrido stilistico in grado di suonare “tradizionale” e “classico” prima ancora della sua esplosione, proprio perché frutto del dialogo fra le espressioni di maggior successo del passato elettronico. I Daft Punk sono il centro nel quale convergono la disco degli anni Settanta, la dancehall del decennio successivo, la house di Chicago, la techno di Detroit, l’elettronica melodico-analogica Berlinese, l’estetica minimal di inizio millennio, le espressioni più futuristiche del rock, la forma canzone propria del pop, gli ammiccamenti del funky, il futurismo, lo sci-fi, l’eterno conflitto fra uomo e macchina, la tecnologia in tutte le sue forme e la nostalgia per i tempi in cui essa non c’era. Nulla, a conti fatti, che prima di loro non fosse stato già sviscerato e trattato in ogni sua possibile accezione. Nulla, a conti fatti, che prima di loro fosse già stato messo in interazione simultanea, associato in ogni possibile combinazione, adattato, smussato e lavorato al punto tale da divenire uno stile, un marchio di fabbrica di proprietà esclusiva. Pochi, prima di loro, erano riusciti a suonare “nuovi” con il vecchio. Nessuno, prima di loro, almeno nel mondo elettronico, era riuscito ad inventare il nuovo attingendo quasi esclusivamente dal vecchio. I Daft Punk sono oggi i più noti esponenti di quell’elettronica che, grazie in primis a loro, è evasa dagli ambienti delle discoteche per raggiungere stazioni radiofoniche e palcoscenici di stadi e teatri. La loro rivoluzione-evoluzione può dividersi a grandi linee in quattro fasi: la raccolta dei numerosissimi elementi che compongono il loro stile, le sperimentazioni sugli stessi e la conclusiva coniazione di quel Daft sound che è ormai impossibile da confondere, l’elevamento dello stesso a standard generazionale per i contemporanei e il conseguente sdoganamento per le masse, conseguito senza il minimo artificio di carattere commerciale. Ed è per questo che, ora più che mai, i Daft Punk rappresentano l’icona per eccellenza della musica elettronica odierna.

Su Rockerilla di luglio/agosto la cover story di Matteo Meda

 

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