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BINKER & MOSES

I primi violini del new jazz londinese

Ho raggiunto (via zoom) Binker Golding e Moses Boyd, il cui duo rappresenta una delle stelle più luminose del firmamento jazz dell’ultima decade. L’intervista mi ha consentito di conoscere due ragazzi tranquilli e di un’umiltà quasi sconcertante, e la cosa non dovrebbe sorprendere: è raro che la convinzione cieca e l’autostima producano grande musica, e Binker & Moses sembrano (fortunatamente) quasi inconsapevoli di quanto sono bravi, della celebrità che hanno conquistato negli ultimi cinque anni, dei riconoscimenti ottenuti dalle riviste e dalle penne jazz più prestigiose.

Ragazzi, è un piacere fare la vostra conoscenza. Confesso che aspettavo questo momento sin dal 2018, quando mi sono imbattuto per caso in Alive in the East?, e nella mia testa è scattato un click: la vostra musica ha schiacciato lo stesso tasto che in passato avevano premuto con energia autentici titani come Albert Ayler, John Coltrane & C., e nel pur vasto e ricco panorama jazz contemporaneo in pochi mi hanno dato le stesse sensazioni, la vostra musica possiede una vitalità e un’anima tangibili.

Binker:. È un piacere scoprire che si può avere questo effetto sugli ascoltatori. Ti ringrazio davvero per le tue parole.

Moses:. Anche io.

Entriamo un po’ nel merito della vostra carriera. Quando avete iniziato a suonare? Vi siete subito innamorati del vostro strumento, ovvero della batteria (Moses) e del sassofono (Binker)?

Moses:. A dire la verità, ho iniziato a suonare piuttosto tardi, sui quattordici anni, e non mi reputo un talento naturale. I primi tempi ero in grande difficoltà, non spiccavo nel novero dei musicisti che mi circondavano. Poi piano piano ho trovato la mia strada, le cose sono maturate e ho sviluppato il mio stile. 

Binker:. Io ho iniziato la carriera di musicista un po’ prima, intorno agli otto anni, suonando la chitarra. Ho conosciuto il sassofono in via incidentale e all’inizio ho studiato musica classica. Con il tempo mi sono innamorato del jazz perché valorizzava l’improvvisazione e mi regalava grande libertà, ampi margini di manovra. Sul piano tecnico e della pura qualità di strumentista, anche io non mi ergevo al di sopra dei miei compagni di studi, specie quando ho iniziato ad approfondire lo studio della musica in modo professionale. Ma piano piano sono riuscito a elaborare il mio linguaggio.

Il vostro disco d’esordio, Dem Ones, sprizza energia da tutti i pori, è meravigliosamente spurio e grezzo nel migliore dei sensi possibili, è quasi trascinato in più direzioni dal vostro talento. Journey To The Mountain of Forever sviluppa e articola il vostro linguaggio, rendendolo più ricco e versatile. Ma io trovo che sia proprio Alive In The East? il capolavoro della prima parte della vostra carriera, quasi una sinossi non solo del vostro semi-free jazz ma anche di ciò che stava succedendo nella scena londinese solo pochi anni fa.

Binker:. Dem Ones è un lavoro cui siamo molto legati perché ha segnato la nostra ascesa nel contesto del jazz londinese, anche se oggi ci suona un po’ ingenuo, e del resto fu pressoché totalmente improvvisato. Il secondo disco è più orientato al progressive e al jazz psichedelico, vede le prime notevoli collaborazioni e ha contribuito a consolidare il nostro ruolo e la nostra nomea. Ma personalmente anche io sono molto legato ad Alive in The East?, anche perché registra una performance dal vivo e io ricordo il pubblico, l’energia, l’atmosfera.

Moses:. Quel disco davvero fotograva in diretta qualcosa che stava giungendo a piena maturazione ma di cui ancora non si parlava così tanto a livello mondiale. Londra stava diventando la capitale del new jazz e quel disco sembrava davvero racchiudere e rappresentare tutto ciò che succedeva nella nostra città solo pochi anni or sono – trovo che oggi la scena abbia perso molto mordente. Al disco hanno collaborato anche autentiche leggende come Evan Parker,contribuendo a renderlo celebre. Anche io ho grandi ricordi del pubblico e del clima che ci circondava, quel momento fu una sorta di epifania per il nostro duo ma appunto anche per il jazz londinese in ascesa.

Ho ammirato molto anche il successivo live, Escape The Flames, che arricchisce ulteriormente la vostra proposta, ma trovo che l’ultimo lavoro – Feeding The Machine – possa ambire alla corona di vostro capolavoro, a oggi. La vostra musica mi ha sempre colpito perché riesce a essere complessa, in qualche modo astratta, e al contempo ad avere un grande impatto fisico, a trascinare l’ascoltatore con il suo groove. Naturalmente, la riuscita dell’ultimo disco è dovuta anche al notevole contributo di Max Luthert, musicista elettronico che ha in parte trasformato la vostra estetica: ecco così che Feeding The Machine è forse il vostro disco più solitario, più concettuale.

Binker:. Sì, Max ha avuto un ruolo essenziale, in quanto gli strumenti elettronici e i tape loops con cui ha arricchito il nostro sound hanno effettivamente aperto nuovi orizzonti alla nostra musica, introducendo nel nostro linguaggio elementi ambient e vicini alla drum’n’bass. La parola solitario descrive bene il sound e le atmosfere dell’ultimo lavoro; Feeding The Machine è in effetti un disco che potrebbe piacere anche ai fan della musica elettronica e della sua ricca tavolozza sonora. 

In Feeding The Machine, così come in tutti i lavori precedenti, traspaiono le vostre profonde conoscenza e passione per molteplici generi musicali: l’ascendenza free jazz è chiarissima e dominante, ma è altrettanto palese che amate l’hip hop con cui siete cresciuti, il funk, appunto la musica elettronica, l’afrobeat – che a mio parere riveste un ruolo centrale, specie in Alive In The East?. D’altra parte, nella storia del jazz non mancano i duetti tra sassofono e batteria (Max Roach e Archie Shepp, Max Roach e Anthony Braxton), ma sono relativamente pochi, se paragonati a terzetti e quartetti.

Binker:. Amiamo tutto ciò che hai citato, i nostri gusti musicali sono molto versatili e sicuramente abbiamo assorbito nella nostra proposta estetiche e sintassi tra loro diverse, provando a personalizzarli in una miscela che è farina del nostro sacco. 

Moses:. Io cito spesso Kind of Blue di Miles Davis e Boy In Da Corner di Dizzee Rascal come gli album più importanti ai fini della mia formazione. Poi ho conosciuto e amato molto altro, ma è chiaro che mi muovo all’interno del perimetro tracciato da opere di questo tipo, tanto che nella nostra musica si trova una sorta di black diaspora, la sintesi di molte tradizioni afroamericane e non solo. Come hai giustamente osservato, sassofono a batteria sono già stati abbinati da grandi precursori, ma si parla di pochi nomi e di un numero risicato di dischi. Da questo punto di vista, siamo entrati in un territorio relativamente vergine dove possiamo sperimentare.

Domanda un po’ scontata: quali sono i vostri strumentisti preferiti, i vostri ispiratori?

Binker:. Su tutti John Coltrane, vero e proprio padre spirituale sia mio che di larga parte della scena contemporanea, londinese e non. Il suo modo di suonare e di vivere lo strumento è ancora oggi qualcosa di straordinario. Credo però che si debba ricordare anche oggi il contributo essenziale di Charlie Parker e la svolta che il genio di Kansas City ha impresso alla storia del jazz. Ammiro inoltre anche Sonny Rollins e un musicista più smooth e di straordinario talento come Michael Brecker, ma in generale tutto i sassofonisti bravi e con uno stile personale incontrano la mia stima.

Moses:. Io adoro Max Roach, per la straordinaria forza propulsiva della sua batteria e la sua energia funk, che irrobustisce le sue complesse strutture ritmiche. Adoro poi anche Elvin Jones, che ha suonato a lungo con Coltrane, e il prodigioso Tony Williams, che ha collaborato a lungo, specie da ragazzino, con Miles Davis.

Progetti per il futuro? Vi state concentrando sulla promozione di Feeding The Machine o avete già in mente qualcosa di nuovo?

Binker:. Direi entrambe le cose, abbiamo appena pubblicato Feeding The Machine e naturalmente vogliamo promuoverlo, ma stiamo già lavorando ai futuri progetti, abbiamo già qualcosa che bolle in pentola.

Moses:. Esatto. Del resto, non possiamo fermarci. Feeding The Machine è il risultato finale di un lavoro iniziato diversi anni fa, già nel 2017 avevamo ipotizzato di poterci avvicinare all’universo elettronico ed è servito un po’ di tempo perché tutto giungesse a maturazione.

Avete in programma di venire in Italia a breve?

Moses:. Per il momento no, ma prima o poi ci torneremo.

Personalmente, non vedo l’ora. Sarò in prima fila.

Francesco Buffoli

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