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BEACH HOUSE Monografia e Intervista

Fenomenologia dell’incanto

 Dal lo-fi a sonorità più definite, in un acquario di candore e sensualità, meraviglia e delusione

In certi ambienti di musicofili basta il nome dei Beach House per suscitare gridolini estasiati e osanna a tutto spiano: sono diventati per tanti (e a ragione) un duo delle meraviglie, benedetto da un successo incalzante, che li ha portati prima ad essere coccolati da Pitchfork & co. e poi a diventare nomi di punta dei grandi festival internazionali. Quell’alveo di sonorità sognanti e agrodolci che ha portato fortuna a Victoria Legrand e Alex Scally è così connaturato alla loro musica da chiudersi attorno a loro come uno splendido acquario, un habitat naturale in cui nuotare e immergere gli ascoltatori di disco in disco, senza eccessivi stravolgimenti. Il duo di Baltimora non sbaglia un colpo, per quanto un certo indie-pop/dream-pop pare essere così alimentato dagli umori malinconici della prima giovinezza e da un certo “candore”/calore compositivo che a tratti si ha la sensazione che l’esperienza conduca a una perfezione formale che può essere come il cristallo raffrontato al legno.

L’album omonimo d’esordio del 2006 (Carpark Records) è un gioiellino vintage come quello della copertina, dotato di una grazia soffusa e triste; vi si respirano atmosfere che generano un incanto semplice e intimo, dettate da note di organo e di tastiere impalpabili che sembrano dare vita a istantanee diaristiche quasi strappate alla Nouvelle Vague. Vi si squadernano piccoli palpiti, profumi e colori che tra drum-machine da cameretta sfumano come in una polaroid o in una galleria sentimentale di vecchie stampe, tra “auburn and ivory / heart break and pony tails” (Auburn and Ivory), ostacoli e “heart made of tears” (Heart and Lungs), fragilità e rassicurazioni.

Quella dei Beach House appare musica da un’altra stanza, che ti inchioda in religioso silenzio allo struggente desiderio di tendere l’orecchio verso un affascinante in(de)finito, verso una dimensione che spazia dai ricordi alle promesse e alle assenze future, tra gli inserti di slide guitar che son come spine chirurgicamente conficcate nel cuore degli ascoltatori. Nella semplicità dei testi, negli scintillii e nelle ritmiche da giostrina di un Sehnsucht postmoderno, c’è un sapore innocente, nonostante provenga da storie che sanno d’esperienza di vita, cantate da una voce che non ha una tenerezza bambina, ma suona corposamente e sospirosamente da donna…su Rockerilla 421 Settembre 2015 l’articolo completo di Ambrosia Jole Silvia Imbornone e l’intervista di Gianluca Servetti.

ph SHAWN BRACKBILL

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