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APOLIDE

Vialfré (TO) | 27-30 luglio 2017

La prossima volta che capitate all’estero, se finite a parlare di musica provate a chiedere quali festival italiani conoscono: probabilmente sentirete un lungo silenzio. In parte hanno ragione loro, perché in Europa esistono decine di realtà – anche molto piccole – in cui tutto è perfetto. E non parliamo soltanto della programmazione artistica, dei grandi nomi, delle quantità insaziabili di concerti su mezze dozzine di palchi: questi li conosciamo bene e da un anno all’altro possiamo puntarci a colpo sicuro. Sono scelte comprensibili: organizzazioni perfette ma eventi completamente spersonalizzati, cibo pessimo e vesciche ai piedi per i chilometri percorsi da un concerto all’altro. Ci sono invece realtà differenti, anche da noi. Alcune eccellenze assolute, una decina di realtà ottime, dove lo spettatore vive un’esperienza diversa, qualcosa di più vicino a un villaggio vacanze indie.

Tra queste è in forte ascesa Apolide Festival, giunto alla quattordicesima edizione.

Da qualche anno ospite del meraviglioso parco naturalistico Pianezze di Vialfrè, a mezz’ora da Torino e un’ora da Milano, il festival mette subito in chiaro le sue velleità con il motto prendi ferie.

E non potrebbe esserci definizione migliore, perché è proprio questa l’atmosfera che si respira fin dall’inizio. Area shopping interessante, un’arena intera per lo sport tra parkour, slacklining e giocoleria e nell’affollato centro dell’area, del cibo – attento a tutte le esigenze – degno di questo nome. Ancora: una zona relax immersa nel verde, tra yoga, riflessologia plantare e shiatsu e una nutrita area family densa di attività, una delle scommesse (vinte) di Apolide.

Poi, ovviamente, ci sono i concerti. Sono tre i palchi: il main stage, con i nomi più noti, il Boobs Stage aperto fin dal primo mattino con esibizioni acustiche e la Sounwood Arena, attenta alle migliori tendenze elettroniche.

La prima serata vola via veloce, con la tenda da sistemare in una zona tranquilla per conservare energie. Dente fa il suo, lasciando galleggiare le sue ballate agrodolci, ma il pezzo forte è rappresentato dagli Xixa, direttamente dal border americano, con ballate tra il tex-mex, la chica, il desert rock e la cumbia. Sorpresa assoluta!

Di venerdì mattina, tra un cappuccino e un muffin, riusciamo ad assaggiare il concerto denso di leggerezze acustiche di Neverwhere, un nome da tenere d’occhio. Il pomeriggio si apre con una incursione folk: The Spell Of Duck si muovono con disinvoltura tra Lumineers e Mumford & Sons. Un salto sull’elettronica di Breez ed è subito sera. I Cibo scaricano una bordata di energia sulle ultime ombre del giorno, annientate dall’inconsistenza degli inutili auto-tune dei Pop-X. Meglio allontanarsi per ascoltare le trame alternative rock degli Atlante, venti minuti dei piacevolissimi Ex-Otago e il math-rock degli incredibili Mood, che si sistemano sottopalco e scaricano quaranta minuti di pura genialità: imperdibili. Per riprendere fiato niente di meglio dell’elegante rigore dei Public Service Broadcasting, autori di un concerto impeccabile e acclamato. Mentre il sonno avanza con gli ultimi cocktail (tutti rigorosamente vodka lemon) il dj set dei Moondogs finisce per farmi dormire una mezz’ora in meno: maledetti!

Siamo a metà festival e abbiamo ancora le energie per raggiungere lo stage a metà mattinata. I bambini dormono meno di me, evidentemente, e corrono con aquiloni che a volte si scontrano con qualche ragazza distratta. Sono in ritardo, ma il live di Karin & The Ugly Barnacles è di una leggerezza rara. Altro nome da segnare: Laura Marling non è poi così lontana. Indugio tra l’elettronica dei bravi friulani Mykja e in un attimo arriva l’inevitabile temporale. Per fortuna il peggio si scarica altrove e si recupera l’irresistibile performance di Luca Bianchini, a suo modo una rockstar che sa muoversi benissimo sul palco. La serata promette benissimo: Willie Pejote, a cavallo tra rap e songwriting, comincia a scaldare la serata. Poco più tardi uno dei momenti più intensi di Apolide, con le ballate dense dei belgi Warhous, come se Nick Cave fosse cresciuto in Europa a fianco di Serge Gainsbourg. Dardust regala un viaggio visionario, con uno show nuovo che fa letteralmente fluttuare le emozioni del pubblico. Serve un po’ di follia, ce la regalano Deian e Lorsoglabro con un direttissimo power pop, prima che Tiggs Da Author porti sul palco l’allegria motown filtrata con Dizzee Rascal: bravissimo. Dopo le bordate di Khompa c’è una notte zeppa di djset: la ricerca techno di Ivreatronic, quella trance del francese Otter e i ritmi torridi di Tropicalia (vedi Indianizer). L’alba non è troppo distante.

Domenica, finalmente! Sì, perché le energie rimaste cominciano a vacillare. Mi rilasso con la brava Cecilia, capace di accarezzare l’arpa con un tocco divino, mi perdo nella bravura folk di Old Fashioned Lover Boy, prima di un ipnotizzante set dei Giulia’s Mother, consumatosi in un silenzio surreale. Ci avviamo alla fine, dividendoci tra la follia rock-tribal di Aldo e le ballate coinvolgenti di Eugenio In Via Di Gioia.

Poi un segnale sovrannaturale: dopo nemmeno una manciata di secondi dall’ultima nota si scarica a terra un temporale violento. L’aria si rinfresca in un attimo, è proprio ora di tornare a casa, con ancora due dita di cocktail in mano.

Il bilancio è presto fatto, dopo quattro giorni del genere. Sentirsi a casa rende l’idea. Ma magari potessimo avere a casa tutti questi stimoli e questa bella sensazione di far parte di qualcosa di così intenso.

Personalità, eclettismo, cura dei dettagli, cortesia, un’offerta culturale di prim’ordine e tanto margine di crescita: ecco cosa è stato Apolide 2017. Ci vediamo alla quindicesima!

Paolo Dordi

 ph Luisa Romussi


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