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CINEMA ITALIANO, “LO STATO DELLE COSE”

RAPPORTO DA VENEZIA

 di Sergio Di Giorgi

Quale è lo “stato delle cose” del cinema italiano dalla prospettiva della edizione n. 69 della  Mostra del Cinema di Venezia che ha visto il ritorno (dopo 11 anni) di  Alberto Barbera? La compagine italiana schierava ben tre titoli nel concorso principale e quattro nella sezione parallela “Orizzonti” (alcuni film, come quelli di Bellocchio e Di Costanzo, sono già in sala, altri vi stanno arrivando); diversi altri titoli erano poi dislocati sia ‘fuori concorso’ che nelle sezioni autonome -sempre assai vivaci-  come “La Settimana della Critica” (gestita dal Sindacato Critici Cinematografici) e le “Giornate degli Autori” (gestite da ANAC e 100Autori). Da notare che, dopo tanti anni, il nostro cinema era chiamato a confrontarsi a viso aperto con quello di tutto il mondo senza poter godere di una sezione come “Controcampo italiano”, prontamente eliminata dal neodirettore in nome di un programma più snello e che secondo lo stesso Barbera rischiava di essere una “riserva indiana” per i nostri autori (in questi anni, in effetti, vi abbiamo visto opere non proprio memorabili, ma anche titoli interessanti come il vincitore dell’edizione 2011, “Scialla!” di Francesco Bruni).

 

Senza indulgere al consueto vittimismo italico diciamo subito, al contrario, che approviamo le scelte della giuria guidata da Michael Mann e dove siedeva anche Matteo Garrone: per l’Italia solo Daniele Ciprì è salito sul palco a ricevere un premio (di categoria tecnica, giusto riconoscimento alla sua abilità di direttore della fotografia del suo proprio film, oltre che di quello di Marco Bellocchio). A nostro avviso, infatti, le cose più riuscite del nostro cinema si sono viste fuori dalla competizione principale, a cominciare da quel concorso parallelo che è la sezione “Orizzonti” (che in questa nuova formula si ispira al “Certain regard” del Festival di Cannes) e dal suo film rivelazione, quel piccolo gioiello ‘low budget’ che è “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo (che ha ricevuto un gran numero di premi collaterali ma importanti, tra cui quello dei critici internazionali). E’ da questo film che vogliamo partire per i nostri appunti “ a tema”, necessariamente frammentari e parziali.

 

GIORNATE PARTICOLARI

“Un giorno speciale”  è il titolo del nuovo film di Francesca Comencini (sorella minore di Cristina, oltre 15 anni di cinema alle spalle, con esiti diseguali, a cavallo tra fiction e documentario), che era in concorso. Ha per protagonisti due giovani,  19 o 20 anni, e si svolge nell’arco di una giornata, a Roma.

 

Anche “L’intervallo” di Di Costanzo (classe 1958, molteplici  esperienze anche internazionali come documentarista e numerosi documentari premiati, che  fa il suo esordio nella fiction) ha per protagonisti due giovani -diciamo ragazzi, lei ha 15 anni, lui poco più, ma  si svolge a Napoli, dove si cresce più in fretta che altrove.

 Del resto, Gina e Marco, nel film della Comencini, sono dei piccolo-borghesi che aspirano al successo e alla celebrità, mentre Veronica e Salvatore, appartengono a classi sociali ben più disagiate, il loro obiettivo è prima di tutto sopravvivere, senza commettere errori, immersi come sono in un cultura che tutto pervade fatta di rapporti di violenza e sopraffazione, omertà, fatalismo. Ma Veronica ha commesso uno sbaglio, che potrebbe esserle fatale, si è innamorata (di chi non avrebbe dovuto) e allora, per farla riflettere, un capomafia locale la tiene segregata in un vecchio edificio, enorme e fatiscente. Salvatore (che in realtà aiuta il padre portando in giro una bancarella di granite di limoni) dovrà farle da carceriere. Gina attende tutto il giorno la telefonata di un deputato impegnato in Parlamento che deve “raccomandarla” nel mondo della televisione;  Marco è al suo primo giorno di lavoro, come autista proprio di quel politico. La telefonata arriva a tarda sera, dopo che i due avranno scoperto  prospettive inedite e periferiche di Roma, e anche di se stessi. Il film però, come i sogni di Gina, sembra aspirare più alla tv che al cinema (nel 2009, con  “Lo spazio bianco”,  dal romanzo di Valeria Parrella, che era pure in concorso a Venezia, la Comencini aveva osato di più).  Anche il boss arriva a tarda sera a minacciare Veronica e per poi portarla via sulla sua potente moto, in un finale giustamente ambiguo, come è sempre il vero cinema.  Salvatore e Veronica, per tutta quella calda giornata, avranno compiuto un lungo percorso dalla diffidenza e dai pregiudizi iniziali verso una possibile, reciproca fiducia. Il  loro dialogo  -quello scambiarsi i vissuti, le paure, ma anche i sogni e i desideri-  si fa tutt’uno con la “fantastica” esplorazione di quel luogo altro (uno spazio metaforico che è pericolo, avventura, gioco da bambini, memoria, e tante altre cose ancora), nei “meravigliosi” chiaroscuri  di Luca Bigazzi. Quell’esplorare e quel dialogare rappresentano la loro coraggiosa, anche se in fondo vana,  sfida al mondo esterno. Da segnalare anche che per scegliere i due protagonisti è stato organizzato un laboratorio, durato oltre tre mesi, che ha coinvolto, con la collaborazione del Teatro Stabile di Napoli, un gruppo di ragazzi dei quartieri spagnoli. Il fatto poi che “L’intervallo” sia un’opera low budget, è un merito ulteriore, in questi tempi di crisi, ma non in quanto aprioristica e pauperistica  ‘etichetta’, ma in rapporto ai suoi esiti artistici, che riteniamo invece assai alti.

 

FALSI MOVIMENTI.

Intervalli, soste, tempi sospesi, indecisioni, falsi ritorni. Solo chi -come chi scrive- è ormai avanti con l’età ricorda bene quel format televisivo (ma allora non si parlava di format), quasi un blob ante-litteram di cartoline illustrate in rigoroso bianco e nero con le quali la RAI-servizio pubblico faceva scoprire borghi e scorci per lo più  periferici del nostro ‘bel Paese’. Se molti, più giovani d’età, sanno cosa era ‘l’intervallo’ tv, si deve anche a Daniele Ciprì e Franco Maresco che inventarono all’inizio degli anni’90 quella “Cinico tv”, anch’essa in rigoroso bianco e nero, che tra le varie e geniali intuizioni, riproponeva  (a volte con qualche traccia di colore) cartoline illustrate e soprattutto disperate dalla periferia di Palermo (assurta a credibile metafora universale). Da qualche anno, Ciprì e Maresco si sono separati, interrompendo un sodalizio artistico più che trentennale. E Daniele Ciprì (che aveva già colorato i film di Roberta Torre e di altri registi, approdando infine, con “Vincere”, alla factory di Marco Bellocchio) giunge ora al suo primo film da regista. Ma le cose migliori  di “E’ stato il figlio” (nel concorso, in sala dal 14 settembre, ispirato liberamente al romanzo omonimo di Roberto Alajmo) restano  forse proprio le sue luci, i suoi quadri, i suoi colori, i suoi rumori.

Invece, le tracce narrative e ancor più i registri stilistici restano disomogenei, come se Ciprì volesse per forza,  a  nostro avviso senza riuscirvi a pieno, mettere assieme un unico grande puzzle ma avendo in mano scatole differenti: il pessimismo cosmico di Maresco, con personaggi certo più amati e immersi in una cifra più umoristica che grottesca; il pop-trash-kitsch (anche in chiave musical-partenopea) della Torre dei primi corti e poi di “Tano da morire” e Sud Side Story” (e presente anche per certi versi nell’ultimo Garrone di “Reality”, premiato a Cannes e che vedremo in sala il 27 settembre); infine, una chiave più sociologica (il film è ambientato in una Palermo anni ’80 non certo molto dissimile, quanto alle vicende descritte dal racconto,  da quella odierna)  e realistica. Lo sfondo sociale e urbanistico è quello consueto di  violenza e degrado (però il film e’ girato in Puglia e vi svettano orrendi  falansteri ancora più orrendi di quelli di Palermo) e dominato da un solo Dio (senza nemmeno gli orpelli della religiosità esteriore, vedi il recente “I baci mai dati” della stessa Torre): il denaro (e l’usura che ne è una delle dinamiche perverse più devastanti, socialmente e moralmente). Ma il problema non è tanto aver trasportato l’universo apocalittico e senza speranza della poetica di Maresco (financo con i suoi personaggi, grandi e piccini,  muti e immobili)  in un altro set  geografico, quanto il fatto che il punto di vista del regista, almeno sul piano estetico, appare meno nitido e credibile  (come del resto anche  Servillo, che si scontra qui con un ruolo un po’ più distante dalle sue corde, ci appare smarrito in una lingua meridionale, ma sconosciuta, a metà strada tra Sicilia e Campania). Restano però idee e spunti (anche inediti rispetto al romanzo) che danno vita a sequenze memorabili (una per tutte, la giostra di Servillo al volante dell’auto dei suoi sogni in un tripudio multicolore di icone del pittoresco turistico siciliano).

Il fatto è che la Storia non si ripete mai identica (a Palermo come a Siena, dove si svolgono le vicende di un ulteriore e atteso esordio registico, quello dell’attore di razza Luigi Lo Cascio, anch’egli palermitano di origine) e che “tornare indietro” può essere molto pericoloso.  Lo sperimenterà, a proprie spese, il protagonista de “La città ideale” (unico film italiano della “Settimana della Critica”) di Lo Cascio, che è un architetto ben inserito nel suo lavoro, ma non certo un tipo  in carriera: troppo onesto, rigoroso, convinto ambientalista,  un tantino pignolo, a tratti maniacale. Se dalla sua auto, di notte, sotto la pioggia, intravede un corpo sul ciglio della strada, torna indietro e chiama i soccorsi. Entrerà così in un thriller poliziesco-giudiziario dove i dati di realtà -e della nostra cronaca italiana- si intrecciano con situazioni e atmosfere metafisiche, tra Durrenmatt e Kafka, Sciascia e Pirandello. Comunque resta un esordio notevole e coraggioso, magari un tantino troppo ambizioso, che fa ben sperare per  la futura  carriera registica di uno dei più talentuosi attori italiani, qua assai credibile nei panni dello spigoloso e un po’ sognante protagonista,  e in più sorretto  da un ottimo cast.

LE BELLE ESTATI

Ancora giovani, e donne. Coppie di adolescenti italiane. Però ci sono  modi diversi di raccontare le persone e i contesti.

Si può fare un film che partecipa dei principali e ricorrenti difetti di certo cinema italiano, troppo attaccato ai modelli narrativi televisivi (recitazione bolsa, insistiti ma spesso superflui primi piani, dialoghi assai superficiali,  e la lista potrebbe continuare). Accade, a nostro personale giudizio, con “Acciaio” di Stefano Mordini che non crediamo renda un buon servizio al libro ispiratore (di Silvia Avallone, un recente successo editoriale, che non abbiamo letto, ma che riteniamo di certo meglio confezionato). A peggiorare le cose il fatto che la descrizione di Piombino e dei suoi problemi sociali (la crisi della siderurgia, la cassa integrazione, ecc.), resta poco essenziale al racconto, piuttosto una cornice su cui innestare altre storie (come quella di una  improbabile storia d’amore tra l’operario e la manager delle risorse umane),  e questo ci ha fatto quasi da subito pensare e rimpiangere un film come “La bella vita”, esordio nella regia e primo successo di Paolo Virzì (1994), che sempre in quei luoghi e tra quegli annosi problemi si svolgeva.  

Oppure si può provare a cambiare, a raccontare in modo differente realtà molto ben conosciute come fa Salvatore Mereu con le periferie di Cagliari (altro terribile esempio di degrado socio-urbanistico) in “Bellas mariposas” (tratto da un romanzo di Sergio Atzeni). Anche qua c’è, in fondo, una storia lunga un giorno d’estate. Ma il viaggio nella città delle due protagoniste, non solo rende i luoghi co-protagonisti  del racconto (come nelle sequenze della la scoperta dei quartieri del centro), ma usa una formula di rappresentazione che affida al personaggio di Cate, e poi anche a quello dell’amica-‘sorella’ Luna, il compito di raccontare la realtà e presentarci i suoi protagonisti (nell’asprezza colorita dell’idioma originale), ma al tempo stesso di viverla: quasi in un processo di progressiva consapevolezza della propria identità e delle proprie reali possibilità di giovani donne in un mondo, ancora una volta, dominato da uomini  “porci” e “padri padroni”. Unico rammarico, per noi, quel finale dove il personaggio di una bella maga che irrompe in scena e aiuta la presa di consapevolezza delle ragazze (e non solo di esse) sarà pure simbolicamente coerente (e sicuramente lo è nel romanzo) ma risulta a nostro parere  una scelta un po’ incongrua con la cifra stilistica del film.  

 

MEMORIE DEL PRESENTE.

Qua possiamo solo elencare (rimandando semmai a successivi approfondimenti) opere di maestri riconosciuti o di giovani ma già affermati autori e autrici, come di outsider, ma tutti accumunati dalla voglia di riflettere sull’oggi e sul domani a partire dalla nostra memoria, individuale e collettiva, lottando contro l’oblio: da “La bella addormentata” di Marco Bellocchio (riflessione sociale, a partire dalla cronaca del “caso Englaro”, e opera ancora una volta assai complessa e stratificata sul piano formale e narrativo, del cineasta piacentino), a “La nave dolce” di Daniele Vicari (sullo sbarco di massa degli albanesi della Vlora al porto di Bari nel 1991); dal  viaggio nel secolo scorso che assume in soggettiva lo sguardo e l’intrico della scrittura ‘inalfabeta’ di Vincenzo Rabito in “terramatta;” (così, in minuscolo  e col punto e virgola) di Costanza Quatriglio,  alle cronache meno note del terrorismo anni ’70  in “Sfiorando il muro” di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi.

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