KAMASI WASHINGTON: IL REPORT DI BOLOGNA
Kamasi Washington
24 Aprile 2025
Estragon Club – Bologna
Report di Daniele Follero
Foto di Rudy Filippini
Mancava dall’Italia da un po’ di tempo, Kamasi Washington e lo ha ricordato al pubblico bolognese, introducendo la prima di tante chiacchierate che hanno scandito la serata dell’Estragon. Il saxofonista californiano è un tipo colloquiale, ama raccontare cosa c’è dietro i brani, cita spesso la sua figlioletta e interagisce con la platea come se fosse in un piccolo jazz club. O a casa sua. Ma, quando si tratta di suonare, è il suo sax a prendere la parola. E la “discussione” si trasforma in ascolto incantato. Classe 1981, a 44 anni Kamasi è già un leader carismatico, capace di guidare una band di super-professionisti con la personalità dei grandi.
Ultima, dopo Milano e Roma, di tre date italiane, recuperate dopo il forzato rinvio per motivi di salute del polistrumentista di Los Angeles, la tappa bolognese del tour a supporto di Fearless Movement, ha restituito tutto ciò che prometteva.
Puntualissimo, alle 21, Kamasi raggiunge il palco con la sua figura mastodontica, avvolta in un lungo camice, che ricorda un incrocio tra Sun Ra e George Clinton. Ad accompagnarlo, il padre Rickey al sax soprano e al flauto, Miles Mosley, comodamente seduto, al basso e al contrabbasso, il mago delle tastiere Brandon Coleman, l’abile quanto sobrio Ryan Porter al trombone, Tony Austin dietro le pelli, una afona Patrice Quinn alla voce e Dj Battlecat, virtuoso dello scratch e del live sampling.
Il sax prende subito il centro della scena, liberandosi, durante le iniziali Lesanu e Asha the First, in assolo-fiume che richiamano inevitabilmente i tour-de-force di coltrainiana memoria. Sembrerebbe essere quella la direzione, ma il momento degli altri strumentisti, che si ritagliano continui spazi per l’improvvisazione mostrando una grande affinità, arriva, eccome. Gli interventi sono perfettamente bilanciati tra loro, anche se talvolta risultano prolissi. Un peccato facilmente perdonabile a chi ha tanto da dire.
La scaletta è quasi interamente costruita sull’ultimo album, con l’eccezione di Vi Lua Vi Sol e del bis Re Run, unici due momenti superstiti della discografia precedente. I brani, però, sono solo un punto di partenza per una meta ignota, temi la cui direzione è tracciata, di volta in volta, dall’estro degli strumentisti. Quello che presenta Kamasi Washington è un campionario di black music. Non è jazz, non è funk, non è hip hop, ma ne contiene l’essenza, inglobandoli in una rielaborazione filtrata dal progressive e dall’afro beat, con un tocco di psichedelia che non guasta. L’improvvisazione resta un elemento fondamentale, per mezzo del quale le composizioni si dilatano, si trasformano, prendono strade laterali, pur seguendo una linea guida. E quella che doveva essere una performance di circa un’ora e mezza, si è spinta oltre le due ore, mettendo alla prova (superata con agevolezza) un pubblico in molti casi estraneo alle logiche del jazz.
Setlist:
Lesanu
Asha the first
Lines in the sand
KO
Get lit
Vi lua vi sol
Together
Prologue
Encore:
Re run