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SLOWDIVE | Padova

| Park Nord Stadio Euganeo | Radar Festival

Quando, qualche mese fa, sul web è iniziata a circolare la notizia secondo cui gli Slowdive si erano riformati per un tour mondiale, in molti hanno avuto un sussulto al cuore. Il quintetto di Reading, uno dei massimi esponenti dello shoegaze, annunciava il ritorno sulle scene a vent’anni esatti di distanza dall’ultimo concerto, tenutosi il 20 maggio 1994 a Toronto. La faccenda assumeva toni ancor più entusiasmanti quando la band annunciava che, sul finire dell’anno, sarebbe stata annunciata la release date di un nuovo album. La calata di Neil Halstead e Rachel Goswell per la prima volta in Italia, all’interno del Radar Festival di Padova, rappresentava dunque un appuntamento imperdibile per tutti i cultori e gli amanti del dream pop, delle sonorità avvolgenti e dei suoni eterei. Il Radar Festival è un ottimo contenitore di situazioni musicali, che trova la propria sede negli spazi di uno storico festival di Padova, lo “Sherwood”, ubicato nel parcheggio nord dello Stadio Euganeo. Arriviamo alle 20.00, giusto in tempo per poter vedere i Brothers In Law, che sul “second stage”, inaugurano la serata. I quattro ragazzi di Pesaro ci danno dentro alla grande, conquistando subito i favori del pubblico assiepato sotto il tendone. Fa un caldo terrificante ma non importa. Il loro è un noise-pop ammaliante, tinto di shoegaze, che chiama in causa Velvet Underground, Jesus & Mary Chain e Swervedriver, con un batterista che, in pieno “Bobby Gillespie-style”, percuote le pelli in piede ed effettua i backing vocals. La loro musica è psichedelica, rumorosa, melodica, entusiasmante: promossi a pieni voti. Ci spostiamo verso il “main stage”, dove, alle 20.40, i Be Forest, altra meraviglia di Pesaro, iniziano puntuali la loro performance. Con due dischi e un’intensa attività live hanno conquistato le platee di mezza Europa, e, in formazione triangolare, elargiscono, ancora una volta, la loro magia dream pop. Il suono è vellutato, delicato, ricco di intarsi chitarristici alla Cocteau Twins. Costanza è sempre meravigliosa da ascoltare e vedere. Tutto sommato, una performance decorosa, li avevamo visti un paio di anni fa quando erano in quattro, probabilmente la rosa ridotta a tre elementi ha un po’ impoverito la gamma cromatica del loro suono. Alle 21.20 ci sono i Soviet Soviet sul ‘second stage’, ma giocoforza ce li perdiamo per accapparrarci una posizione favorevole davanti al main stage. Alle 22 precise, ecco sul palco i cinque ex ragazzi di Reading. Con un allestimento essenziale, e, sullo sfondo, un tendone nero con la scritta Slowdive in color bianco, iniziano con Slowdive e Avalyn I, i due capisaldi iniziatici contenuti nell’E.P. Slowdive, uscito nel 1990 su Creation records, label che accompagnerà la band, tra alti e bassi, fino al triste epilogo del 1995. Il sound è coeso, penetrante, etereo e rumoroso, ipnotico. La loro performance è affiatata ed efficace. Gl i anni non sembrano affatto passati per la band. Neil Halstead, defilato a sinistra del palco, inanella riff psichedelici e ondìvaghi, combinando alla perfezione le parti di chitarra solista, tutte sue, con le parti vocali. La sezione ritmica è qualcosa di sconvolgente, nella sua potenza, nell’alternare la dualità espressa dagli avvicendamenti tra i pianissimo e i fortissimo, il cuore autentico dell’estetica Slowdive. Nick Chaplin, al centro del palco, è un bassista straordinario, che svolge perfettamente il suo compito da consumato musicista, mentre Simon Scott, dietro le pelli, è ancor più travolgente nell’interpretare, in modo ancor più enfatico e movimentato, i fragorosi finali delle canzoni: ecco assicurati il dolce sprofondare nel rumore e il conseguente, indotto, deliquio dream pop. Rachel Goswell, pallida come nel 1991, stupenda come allora, dimostra qualche difficoltà nel tenere (e mantenere) le tonalità alto richieste dal falsetto, ma resta sempre una voce di fata, dotata di un fascino magnetico, che si divide tra chitarra ritmica, maracas e backing vocals. Christian Savill, sulla destra, è un ottimo gregario che cura le parti di chitarra ritmica. Col terzo brano, Catch The Breeze, uno dei brani più belli del favoloso debutto Just For A Day, il numeroso pubblico esplode letteralmente. L’entusiasmo è davvero tanto,e, quando partono Crazy For You e Blue Skied An’ Clear, il pubblico va in estasi. La trance indotta dai due capolavori ambient-guitar di Pygmalion vengono intervallati da Machine Gun, che, cantata, da Rachel rappresenta un semplice e delizioso brano di pop psichedelico. Giù per il sentiero di Souvlaki, vi sono Souvlaki Space Station e When The Sun Hits a stregare un pubblico raramente così caldo nelle lande italiche. Poi c’è Alison, con la sua magia sognante, con il jingle-jangle delle chitarre, con il feedback che ti porta verso il cielo. Ma ecco che Morningrise e She Calls ci riportano al primitivismo dei primi tempi, con il loro noise-pop inquietante, eppur sempre magico, sempre entusiasmante. Golden Hair, cover di Syd Barrett su testo di James Joyce, tratta dal terzo favoloso E.P. Holding Our Breath, chiude il set su sonorità quasi sacrali. Gli Slowdive salutano e ringraziano, ma tornano presto sul palco per regalare ad una folla adorante 40 Days, unico bis di un concerto stupendo, ottanta minuti di pura estasi sonora.

Emanuele Salvini

 

 

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