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Rockerilla novembre ti aspetta in edicola!

In cover gli iconici Virgin Prunes, celebrati in occasione della ristampa di ..If I Die, I Die con un’intervista imperdibile a Gavin Friday

Per Aldo Chimenti, che firma l’imperdibile cover story di novembre, la vera grande rivelazione irlandese targata primi anni ’80 non erano gli U2 di Bono Vox ma i Virgin Prunes di Gavin Friday. In età giovanissima i due fecero parte del Lypton Village, leggendario collettivo di Dublino che incarnava l’anima più indocile e irriverente del punk primigenio, l’urlo lancinante dell’underground che inveiva sullo sfondo di una nazione allo sbando, fra violente tensioni sociali e conflitti etnico-religiosi-nazionalisti fuori controllo. In seno alla cricca-calderone del villaggio ribelle c’erano anche i fratelli Richard e David Evans (in arte Dik e The Edge), quest’ultimo destinato a formare gli U2 con l’amico Paul Hewson (in arte Bono) e a cavalcare l’onda del fortunatissimo successo internazionale che ben sappiamo. Oltre al frontman Gavin Friday (al secolo Fionán Hanvey), a militare nelle file dei Virgin Prunes erano con gli alias di Guggi e Strongman i fratelli Derek e Trevor Rowan (rispettivamente voce e basso), Dik Evans alla chitarra, il terzo vocalist David Watson Jr. aka Dave-Id Busaras e il batterista Anthony Murphy aka Pod. Costui venne presto rimpiazzato dal percussionista Haa-Lacka Binttii (ovvero Daniel Figgis, futuro membro fondatore della meteora Princess Tinymeat), a sua volta sostituito da Mary D’Nellon (David Kelly), arrivato in tempo utile per partecipare alle registrazioni di A New Form Of Beauty. In comune le due formazioni avevano la città di provenienza, ma a parte questo ed il suddetto legame di parentela nulla li accomunava sul piano delle affinità elettive. Le istanze della nuova onda britannica conobbero nei Virgin Prunes il sapore acre di una sfida creativa destinata a scuotere le coscienze, un’accolita di cuori selvaggi che cantavano le ragioni dell’alienazione urbana e della pazzia, dell’orrore per un mondo distopico da annientare e combattere ad armi pari. Ed era proprio per questo che la loro musica invaghiva e spiazzava inesorabilmente macinando picchi di furore diabolico ed eccitazione carnale. Sotto la scorza urticante e la movenza triviale della loro grafia rudimentale, c’era l’arguzia temeraria dell’artista votato ad osare oltremisura e del disturbatore sonico dalle idee chiare, chiamati a fecondare una nuova forma di bellezza terrificante, una bellezza prossima ai bassifondi dell’abiezione e della trasgressione a piede libero. La loro immagine si mostrava imbrattata nel volto e nel corpo a mo’ di maschere tragiche (l’estremizzazione della dissolutezza estetica in neri abiti gotici o nei primitivi sembianti di indigeni seminudi), mentre le loro performance si snodavano a guisa di piece teatrali alle soglie della schizofrenia, caratterizzate da una gestualità scomposta e scellerata, come di riti pagani alle divinità della lussuria e del caos.

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