
QUEENS OF THE STONE AGE A I-DAYS – IL REPORT
Queens Of The Stone Age
Royal Blood
The Vaccines
06 Luglio 2024 – I-Days – Milano
“Si fa o non si fa?” Il giallo della presenza o no dei Queens Of The Stone Age agli I-days di Milano tortura per 24 ore i pensieri e i programmi logistici dei fan. Dopo l’annullamento della data dell’AMA Festival per un problema fisico di Josh Homme, il concerto milanese entra in un indecifrabile limbo di provvisorietà. Voci di corridoio si rincorrono su un’operazione urgente che dovrebbe subire il frontman, intanto il refresh continuo sui canali ufficiali del festival non sortisce novità. All’ora di pranzo viene pubblicata la timetable in cui figura anche la band: non è una comunicazione ufficiale, ma almeno ufficiosa, che rasserena tutti quelli che stanno già viaggiando “al buio” verso l’Ippodromo Snai San Siro. Anche questa è musica, anche questo è amore.

Il pomeriggio inizia con i Kemama della frontman Ketty Passa (speaker di Virgin Radio), continua con i The Vaccines protagonisti dell’indie inglese anni dieci, e va avanti con il dj set di Virgin Radio. L’arena si affolla con i Royal Blood, duo inglese che incendia una buona fetta di pubblico venuto appositamente per loro, esaltando nei momenti più heavy e inclini all’improvvisazione. Ben Thatcher alla batteria percuote senza pietà, lancia al pubblico diverse bacchette, scende dalla pedana a “governare” le onde di movimento umano sotto il palco. Mike Kerr alla voce e al basso sfodera il suono grasso, fuzzato e ricco di octaver, che ha costruito nel tempo con il metodo di collegare lo strumento ad amplificatori sia per basso che per chitarra. Un’impostazione “mista” che può far venire in mente quella non convenzionale che Josh Homme ha usato nei Kyuss, con la chitarra collegata su amplificatore da basso.

E appena il frontman dei Queens Of The Stone Age sale sul palco, subito gli occhi di tutti sono puntati su ogni singolo movimento, per cogliere qualche indizio sul suo stato di salute. Dietro di lui, sugli amplificatori, un calice di vino e altri due bicchieri dai liquidi imprecisati – fino a prova contraria l’alcool è anche un buon antidolorifico. I suoi movimenti sul palco non sembrano i più fluidi che si possono desiderare, e non sappiamo quanto sia il dolore e quanto l’antidolorifico, ma si può leggere l’intenzione di fare un concerto carico e robusto. Insieme a lui Troy Van Leeuwen alla chitarra, Michael Shuman al basso, Dean Fertita alle tastiere, Jon Theodore alla batteria (che dovrà affrontare un cambio di rullante a tempo record nel bel mezzo di I Sat By The Ocean).

L’inizio è sul velluto con Little Sister e Smooth Sailing, poi c’è il primo saluto del frontman con un simpatico “buonanotte!” frutto di traduzione eccessivamente pedissequa dall’inglese. Il ciuffo biondo e spaccone di Josh Homme è ancora oggi il segno particolare di un Elvis alternativo, spiccio, cinico, vizioso, cattivo, “villain” (cit.), non meno americano, non meno rock’n’roll. Piace anche per questo. La sua presenza fisicamente imponente è al centro di una scenografia di luci piramidale; ogni gesto largo con le lunghe braccia che si allontanano dallo strumento arriva visivamente anche a distanza, senza bisogno di guardare sui maxischermi.
Il concerto prosegue con pezzi tratti dalla seconda parte della storia della band e dall’album In Times New Roman… uscito l’anno scorso. Il nome del tour è “The End Is Nero”, un gioco di parole per dirci che la fine è vicina, e che ci lascia sospesi sul fatto se Nero si riferisca a Nerone, o sia le iniziali di New Roman, o sia il colore dell’oscurità, o tutte queste cose insieme. Di sicuro l’oscurità è un’immagine che rappresenta bene il periodo che ha appena attraversato il leader, visti gli strascichi legali della separazione con l’ex moglie, e l’asportazione di un cancro. Questo tempo “Nero” è stato d’ispirazione? Naturale pensare di sì.
Più o meno a metà del concerto, da Go With The Flow in poi, parte un crescendo che sfocia in un finale irresistibile. Momento centrale è Make It Wit Chu, in cui Josh Homme si avvicina al pubblico, ammiccante e piacione, interpretando da crooner una canzone che parla senza girarci intorno di un chiodo fisso dei suoi testi: il sesso. Riprendono dunque più fragorose che mai le “canzoni per sordi” tratte dallo storico album Songs For The Deaf: la tripletta finale – You Think I Ain’t Worth A Dollar But I Feel Like A Millionaire, No One Knows, A Song For The Dead – chiude fragorosamente la serata, nel modo più esaltante che c’è per il 99% dei fan dei QOTSA.

Un’ora e un quarto di concerto, non molto. Due pezzi in meno rispetto alla prima data italiana, quella di Roma. Il sentimento a caldo appena finito il concerto è ambivalente, da una parte la sua brevità, dall’altra la sua intensità. Ma è quest’ultima, senza dubbio, a prevalere. ¡Que musica impresionante!, per citare uno degli intermezzi radiofonici che collegavano le tracce dell’album “rosso” del 2002.
Si svuota l’area dell’Ippodromo, la gente defluisce verso l’uscita. Sul viale, tra strada e marciapiede, sono accampati decine di ragazzi con le tende: passeranno qui la notte in attesa del concerto dei Bring The Horizon in programma il giorno dopo. Non avreste fatto una cosa del genere per i Queens Of The Stone Age, forse, ma anche questa è musica, anche questo è amore.
(Paolo Albera / Foto: Loris Brunello)
Setlist:
Little Sister
Smooth Sailing
My God Is The Sun
The Evil Has Landed
Paper Machete
Emotion Sickness
I Sat By The Ocean
Time & Place
Go With The Flow
The Lost Art Of Keeping A Secret
Carnavoyeur
Make It Wit Chu
You Think I Ain’t Worth A Dollar, But I Feel Like A Millionaire
No One Knows
A Song For The Dead