
MOGWAI: If The Stars Had A Sound
Recensione in anteprima, il film fa parte del programma di SEEYOUSOUND 2025
Cinema Massimo, Torino
MERCOLEDÌ 26 FEBBRAIO – 21:15 – SALA 2
VENERDÌ 28 FEBBRAIO – 18:45 – SALA 1
Dopo tre decenni di luminosa carriera anche la leggendaria band scozzese Mogwai approda al sacrosanto tributo cinematografico con questo documentario diretto da Antony Crook, fotografo e regista newyorkese, nato e cresciuto in Inghilterra e poi trasferitosi in USA, loro collaboratore di lunga data. Emersi all’apice del movimento Britpop e Cool Britannia, illuminato da Oasis, Blur, Pulp e Suede, i Mogwai sono apparsi da subito un’entità completamente differente. E questa pellicola prova a raccontarci perché. Il documentario ci rende partecipi spettatori di un viaggio avvincente e inaspettato, partendo dal momento in cui il gruppo si ritrova, con enorme stupore, sul punto di conquistare la vetta delle classifiche britanniche nel febbraio 2021 con il decimo album As the love continues. Da quel momento, il film riavvolge il nastro del tempo e, attraverso il tumultuoso periodo della pandemia, ripercorre la storia del gruppo sino alle origini nella metà degli anni ’90 con l’uscita dell’lp d’esordio Mogwai Young Team (1997) per l’etichetta scozzese Chemikal Underground, guidata dal batterista dei Delgados, Paul Savage. La visione scorre avvincente tra granulosi filmati d’archivi, riflessioni tra amici/collaboratori e trasmissioni radiofoniche, opportunamente miscelati con fiammanti frammenti di esibizioni live. Lungo i suoi oltre 90 minuti, l’opera lascia infatti ampio spazio alle maestose esplosioni strumentali, libere di dispiegarsi senza eccessive intromissioni narrative, elargendo solo timidi cenni biografici. Mentre un ruolo chiave lo giocano invece le testimonianze di coloro che hanno avuto il privilegio di incrociarli. E tutti convergono nel descrivere quei momenti come un’esperienza profondamente appagante.
Partendo da Alex Kapranos dei Franz Ferdinand che, folgorato dal loro talento, fu il primo ad invitarli a suonare dal vivo al 13th Note Café di Glasgow, riconoscendo nel rumore infinito dei loro feedback stordenti il tramite magico e perfetto per esprimere l’anima taciturna di questi giovani musicisti. Il produttore Arthur Baker, portò poi alla luce, forse inconsapevolmente, una loro inclinazione mistico-estatica, convincendoli a registrare una versione della preghiera ebraica Avinu Malkeinu, uscita come singolo nel 2001 con il titolo My Father My King. Ma è nelle parole dello scrittore e collaboratore della BBC Ian Rankin che la natura dualistica del sound del gruppo trova la sua più illuminante descrizione. Rankin, con rara maestria, riesce a coglierne nel profondo gli elementi fondanti: la delicatezza e la potenza, l’intimità e l’universalità, il silenzio e il fragore. Musica incompromessa quella dei Mogwai che affiora a più riprese nella sua grandiosità espressiva mentre Stuart Braithwaite e compagni rimangono costantemente defilati, ripresi in studio e sul palco ma solo di rado coinvolti nella narrazione in prima persona. Sullo sfondo è sempre presente il paesaggio urbano di Glasgow, la città d’origine del gruppo, prevalentemente uggioso e malinconico. Il documentario attraversa poi anche istanti toccanti, quando ad esempio con molta emozione riascoltiamo la voce dello storico dj inglese John Peel lanciare una delle prime radio session del gruppo o diversamente quando in tempi recenti Mary Anne Hobbs, dj di BBC 6music, li elogia con prosa estatica riconoscendo loro una caparbia determinazione ed un’ostinata indipendenza. Senza offrire specifici dettagli su quanto questo approccio abbia funzionato negli anni, sia a livello economico che personale, il regista Crook sembra suggerire come, in un’industria musicale profondamente mutata, la parabola dei Mogwai possa rappresentare davvero un caso unico. Le battute finali catturano i momenti in cui il gruppo vola eroicamente al numero uno delle UK album chart con l’album As the love continues, dopo una massiccia mobilitazione del fan base sui social media e uno straordinario concerto alla Royal Concert Hall di Glasgow. Nei momenti conclusivi del documentario, il regista cede infine il palcoscenico ad altri protagonisti, i fan devoti che li hanno seguiti nel corso di un quarto di secolo. Ed è qui che il film regala istanti di pura, commovente intimità, dando voce a coloro per cui queste sonorità sono diventate parte integrante della vita. Emergono storie personali intense che rivelano quanto profondamente la loro musica abbia segnato l’esistenza di tanti individui. Un impatto che va ben oltre le mere cifre di vendita dei dischi o le recensioni sulle pagine di giornali e riviste. Si percepisce con chiarezza il legame estremamente intimo e viscerale tra il gruppo e il suo pubblico. Ed è proprio questo il segreto ultimo dei Mogwai e di un documentario che riesce a cogliere con vera sensibilità questo aspetto. Non una semplice celebrazione di una carriera, ma un tributo sincero alla connessione profonda instaurata con generazioni di ascoltatori. Il tempo, le tendenze e la moda si susseguono e cambiano, ma la loro arte no. È stata, rimane e sarà per sempre, la stessa. Sublime!
GIANCARLO COSTAMAGNA