LOVE, DEUTSCHMARKS AND DEATH
Regia: Cem Kaya
A partire dall’inizio degli anni ‘60, la Germania decide di dare nuovo impulso alla produzione industriale stipulando accordi con paesi dell’Europa meridionale – Portogallo, Spagna, Italia, Grecia e soprattutto Turchia. In dieci anni, centinaia di migliaia di turchi vengono sradicati dalla propria terra natia, costretti interminabili turni in fabbrica senza pause, confinati ai margini della società tedesca. La Germania crea una generazione di invisibili – Gastarbeiter a voler essere gentili, die Kanaken a volerlo essere un po’ meno. Cem Kaya racconta il lungo processo di ricostruzione dell’identità turca in un paese straniero attraverso il mezzo più forte di tutti: la musica. I primi lavoratori turchi arrivano armati solamente del caratteristico liuto, il bağlama, e della propria voce. I musicisti prima sono punto di aggregazione per cuori distanti da casa, poi diventano espressione della coscienza di classe quando si fanno cantori di protesta descrivendo le terribili condizioni di lavoro dei connazionali. Alcuni di questi musicisti avranno un cammino folgorante che, insieme all’apertura di case discografiche specializzate – in testa a tutte la Türküola, li porterà ad essere vere e proprie star, anche se il loro status sarà sempre e solo confinato alla vendita di cassette nei negozi turchi. Passano due decenni e la comunità anatolica è ormai ben stabilita, così come ben fissi sono i canoni della musica turca degli immigrati. Ed è il tempo dell’innovazione: l’anatolian rock di Cem Karaca e la psichedelia del duo Derdiyoklar, che stupisono ed ammaliano anche il pubblico tedesco. Ma la recessione è dietro l’angolo – e così una nuova ondata di xenofobia. Gli immigrati turchi reagiscono con forza: gli anni ‘90 portano l’hip hop in Germania, e così anche la lost generation dei figli dei Gastarbeiter ha modo di trovare la propria voce – nuovamente veicolo di protesta – e di usare il rap come reazione a razzismo, isolamento e come spinta a usare il proprio stato di non propriamente turchi, non propriamente tedeschi come mattone per la costruzione di una nuova identità ben definita.
Cem Kaya specifica che la storia degli immigrati turchi potrebbe essere la stessa storia di qualsiasi altro popolo forzosamente ricollocato: la musica fa da collante, da forza identitaria, da supporto e voce per chi voce non ne ha. Ne esce fuori una storia che, pur essendo contestuale alla cultura turca, è universale – alla portata della sensibilità di tutti coloro che, sentendosi soli all’estero, si sono potuti concedere un sorriso inciampando accidentalmente in atmosfere di casa. Eugenio Palombella