KIM GORDON – ALCATRAZ, MILANO
28 ottobre 2024 – Live Report
Alcatraz – Milano
Mettiamo subito le cose in chiaro: il live di Kim Gordon a Milano è stato un trionfo. Nonostante un allestimento in versione ridotta, sul palco laterale (non quello delle grandi occasioni, per intenderci), l’evento ha immediatamente preso una piega gloriosa. A cominciare dall’apertura: raramente capita di ascoltare un opening così coerente, per suoni e attitudine, al set principale. Natalia Zamilska, d’altronde, sa decisamente il fatto suo: producer polacca, classe 1989, originaria di un paesino della Slesia, ha debuttato nel 2014 con un album che è immediatamente schizzato al numero 12 della toplist di The Quietus; ha potuto contare sull’endorsement di personaggi del calibro di Iggy Pop e Nine Inch Nails, e ha visto alcuni suoi brani finire nei fashion show di Gucci. Il suo set mischia la techno con l’industrial e il noise (in un pastiche non troppo dissimile dalle sperimentazioni solistiche della Nostra) e conquista immediatamente il pubblico, che forse riconosce in quei pattern ipnotici e nelle ritmiche martellanti, molto di ciò che l’ha conquistato in The Collective.
Una mezz’oretta abbondante di salti, e poi arriva il momento di accogliere la star della serata. Preceduta da un video (che conferma la perdurante passione per l’arte visuale della Gordon), eccola qui con la sua straordinaria band di Gen-Z: fa il suo ingresso con passo deciso, stivaletto borchiato alla caviglia, shorts sportivi con logo Celine in bella mostra, camicetta di raso con fiocco al collo in stile demure, ed è già iconica.
Chi sostiene che Kim Gordon sia un’artista algida, non l’ha mai guardata negli occhi. Certo, mi direte, non è cosa da tutti ritrovarsi in prima fila, ma tant’è: se il prezzo da pagare per vedersela faccia a faccia è arrivare due ore prima e sciropparsi le chiacchiere dei vicini di transenna, che ti fanno sanguinare le orecchie a furia di recensioni non richieste dei dischi più sconosciuti della storia, c’è chi è disposto a pagarlo. La ricompensa sarà una prospettiva privilegiata, che ci consentirà di cogliere tante piccole sfumature, trascurabili eppure importantissime: certe piccole esitazioni nei primi istanti (sull’attacco di Bye Bye fa un gesto preoccupato alla cabina di regia per aumentare il volume della spia sul palco); certi gesti impercettibili che tradiscono un filo d’ansia quando c’è da attivare la pedaliera; uno sguardo un po’ sprezzante quando le arriva addosso una maglietta lanciata dal pubblico, che però al termine del brano viene raccolta e affidata al roadie con un mezzo sorriso; in definitiva una specie di sorprendente timidezza, che mai e poi mai avremmo potuto intuire da lontano.
I suoni materici di The Collective non potevano che prendere vita in quel modo lì, e nessun altro: feroci, eppure controllati; la musica di questo disco ha una vocazione altamente performativa, con labirinti ritmici sincopati dove domina il rumore industriale. Ed eccoli gli echi dei suoi mantra metropolitani, fatti di spoken words e pochissima melodia: è tutto tagliente e inafferrabile, tutto distante eppure avvolgente, proprio come deve essere.
L’ultima volta che l’avevo vista era al Primavera Sound, nel 2022. Un concerto decisamente più selvaggio (a un certo punto aveva passato la sua chitarra alla platea, mentre lei si scatenava in un headbanging che simulava uno stato di trance); qui l’ho trovata più misurata, ma non meno efficace. Tanta sostanza con zero spettacolarità.
Tra i momenti più entusiasmanti, accanto alla prevedibile apertura affidata a Bye Bye, la catarsi di I Don’t Miss My Mind, che – come ci aveva raccontato a marzo di quest’anno, in occasione della nostra intervista – prende il titolo da una mostra d’arte di un amico, e che racconta la sensazione che si prova quando si smette di cercare a tutti i costi di essere una persona di successo nel proprio campo, quando si accantona l’idea del sogno americano, quando si vede con distacco ciò che si è accumulato attraverso una qualche idea di affermazione nel mondo. O l’esaltante I’m a Man, che racconta con sarcasmo il senso di smarrimento a cui è esposta la mascolinità al giorno d’oggi. O, ancora, l’intermezzo contemplativo e malinconico di “Cigarettes” (drone song), con quel fraseggio di chitarra capace di spezzarti il cuore.
Quattordici brani + due. Pochissime parole, spese solo per ringraziare in perfetto italiano, presentare la sua talentuosissima band e schierarsi in difesa del diritto delle donne a decidere del proprio corpo (un riferimento non casuale, viste le elezioni americane alle porte). D’altronde Kim Gordon non è certo nota per la sua loquacità, e sarebbe strano il contrario: è il perfetto prototipo dell’artista concettuale che condensa tutti i suoi significati in gesti estetici. Ed è anche mille altre cose: una musicista con una visione singolarissima, che riesce contemporaneamente ad omaggiare il post punk e a farci piacere la trap; che ci ricorda costantemente il suo enorme bagaglio, eppure viaggia leggera, perché non ha nessuna intenzione di campare di rendita con la sua grandezza e seguitare a ripetere quanto già detto, ma che ha voglia di continuare a stupirci, di raccontarci qualcosa di nuovo, di esplorare il suo caos e metterlo in musica.
Testi: Valentina Zona / Foto: Loris Brunello
Setlist
- Bye Bye
- The Candy House
- I Don’t Miss My Mind
- I’m a Man
- Trophies
- It’s Dark Inside
- Psychedelic Orgasm
- Cigarettes
- Shelf Warmer
- The Believers
- Dream Dollar
- Airbnb
- Paprika Pony
- Cookie Butter
Encore:
- Hungry Baby
- Grass Jeans