FLORENCE AND THE MACHINE
High As Hope | Virgin EMI
Sulla copertina del suo quarto album la figura preraffaellita di Florence Welch ha uno sguardo cupo, quasi stravolto, in contrasto con i colori tenui e pacati dell’abito e dello sfondo: il suo nuovo disco d’altronde lascia programmaticamente spazi più ampi del precedente alla speranza, le cui piccole ancore sono ad esempio la sorella Grace o la stella polare Patti Smith, ma pure si trova a muoversi tra solitudine, rabbia, tristezza, alcool, droga, disordini alimentari e senso di inadeguatezza. L’artista ripercorre infatti la sua storia personale fin dall’adolescenza, asciugando in qualche modo i suoni del suo chamber pop. Non mancano infatti nel lavoro arpe, archi, vari fiati sontuosi, con arrangiamenti e sax tenore affidati al tocco riconoscibile di Kamasi Washington, così come alcuni brani più avvolgenti ed emozionanti come Patricia (dedicata appunto alla Smith), ma globalmente gli arrangiamenti appaiono più sobri. Prevalgono infatti probabilmente tessiture sonore essenziali con grande centralità della voce e vari personaggi femminili, con minimalismi di basso o con linee di piano perentorio (che possono anche alternarsi o combinarsi con i synth inquieti di Jamie xx), linee di piano centrali in canzoni eteree, ma anche pronte a farsi intense (con Sampha), oppure ancora dotate di una raffinatezza black/soul e di una bellezza quasi religiosa, ecc. Anche i cori trovano una loro misura, levandosi e gonfiandosi come l’abbraccio di un’onda solo quando serve, talora quasi con l’afflato di una preghiera laica alla ricerca di un equilibrio sottile tra l’esaltazione dell’artista nei concerti e il disorientamento della persona nel privato. Un disco morbido e intimo.
Ambrosia J. S. Imbornone