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Festival di Cannes 17/05

“Salvo” di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Opera prima. Dichiaro subito la mia (orgogliosa) posizione che mi vede in conflitto d’interesse riguardo a questo film. I due autori sono stati miei alunni alla Scuola Holden e adesso sono miei amici e registi. Ci hanno messo cinque anni per realizzare “Salvo”. Comunque, anche col conflitto d’interesse, voglio dire tutto il bene possibile del film al quale va un bel 3½ (e quasi quasi sono tentato di dargli persino un ottimo 4 dopo aver letto i giornali francesi di oggi). Storia palermitana, molto palermitana. E film che vive di tre ritmi, tre respiri, tre modi d’essere. Prima è un film noir: sparatorie e regolamento di conti tra due fazioni rivali, auto e moto, inseguimento di uno dei killer fin dentro un palazzo in costruzione e sua liquidazione, poi lungo e silenzioso percorso, pistola alla mano, del protagonista in una casa dove si trova Rita, ragazza cieca che è sorella del tizio che voleva farlo fuori. Poi, una seconda fase, una primitiva storia d’amore carcerario, dura, anche feroce, anche dolce. E per finire uno scontro che sa di western all’italiana e di poliziottesco, sempre all’italiana. Il film si muove quindi su più fronti messi in scena con differenti scelte di regia, da quelle molto montate e controllate del film d’azione, a quelle in piano sequenza nella casa della ragazza cieca, alla zona finale dove prevale una retorica più cinefilica e allegramente citazionista: come a dire, un film può essere tanti film. I tre “Salvo” sono comunque un unico film dove il guardare, il vedere, il non vedere, l’intravedere nell’oscurità, l’essere accecati dal sole abbagliante sono l’ingrediente fondamentale lungo un percorso che, un meandro dopo l’altro, sfocia in un western siciliano affogato in una calura di incendi e polvere. Il film fino a ieri aveva una distribuzione francese ma non ancora una italiana. Speriamo che si rimedi subito.

 

A Touch of Sin, Jia Zhang-ke

Che magnifico film! La Cina di oggi. Quella che era, quella che è diventata e quella che prevedibilmente sarà. Inizio folgorante. Bastano tre minuti per capire che: 1) qui il regista sa il fatto suo (questo lo sapevamo, Jia ha vinto il Leone d’oro con “Still Life”, ha diretto “Platform” e tanti altri bei film…); 2) che il regista si sta orientando a fare cose cinematografiche che non aveva mai fatto (scene d’azione, sparatorie, accoltellamenti: e questa è una sorpresa); 3) che il racconto, anzi i racconti saranno la colonna portante di “A Touch of Sin”. Titolo rivelatore: nella Cina di Jia è arrivato il peccato, il male fatto e subito, ne basta un tocco, una briciolina per abbattere idoli, ricconi, politici, funzionari e comunisti consumistico-capitalisti che non è un ossimoro, sono veri. Quattro storie, variamente intrecciate, storie di migrazioni. Dahai, minatore che tutti prendono per mezzo matto, combatte la corruzione dei dirigenti del suo villaggio. San’er si sposta di città in città, lui e la sua pistola, uccide per mandare i soldi a casa e perché gli piace. Xiao Yu lavora nelle suane, ha un amante sposato e scopre un’abilità a lei stessa sconosciuta, sa usare il coltello. Infine il giovane Xiao Hui è costretto a cambiare un lavoro dopo l’altro ed è il solo che non fa male agli altri. Tema comune alle storie che attraversiamo e con le quali percorriamo la Cina contemporanea è lo sviluppo brutale di un immenso paese, sviluppo che significa semplicemente ricchezza e violenza. Sentite e immaginatevi come inizia il film. Prima inquadratura: un uomo seduto ai bordi di una strada di montagna fa saltare riprende in mano fa saltare riprende in mano un pomodoro. Inquadratura larga: un grosso camion si è ribaltato, le cassette e i pomodori sono sparsi sulla strada. Un uomo guida la sua moto, escono fuori tre ragazzotti ognuno con un’ascia in mano, gli intimano di fermarsi, quello si ferma, vogliono i suoi soldi, quello della moto si mette la mano sotto il giubbotto come per prendere il portafoglio, estrae una pistola, ne fa secchi due, il terzo corre via, l’uomo si mette la pistola fra i denti!, lo insegue e lo liquida. Il motociclista riprende con calma il percorso e arriva dove si è ribaltato il camion dei pomodori. Sentiamo subito, fin da questa magistrale apertura, che Jia sta cambiando il suo cinema: resterà fedele alle sue inquadrature pensierose ma adesso ne pensa anche di efficacemente vivaci. In più dissemina invenzioni di tutti i tipi: serpenti di tutti i colori, un fucile caricato a pallettoni fatto su in una coperta con l’immagine di una tigre, la statua di Mao e un quadro della Madonna nella stessa scena!, ragazze in divisa militare scollata e hot pants messe in bella vista per ricchi acquirenti, una Maserati inondata di sangue. Dice Jia che per lui “A Touch of Sin” è un wuxia pian, un film di arti marziali, sulla Cina contemporanea. Tema portante dei film di questo genere è la lotta dell’individuo contro l’oppressione. “A Touch of Sin” mi sembra allora che possa essere considerato l’erede di un capolavoro di King Hu, “A Touch of Zen”*****. Solo che stavolta non c’è lo zen ma il sin. L’individuo gli oppressori li fa fuori senza pensare a nessun dopo.

BRUNO FORNARA

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