Top

ELBOW | Monografia e Intervista

Una storia del Nord

Non si scorda quel 12 agosto 2012 nel londinese Olympic Stadium, per tanti, troppi, motivi. La cerimonia di chiusura della trentesima Olimpiade è al suo zenit. Gli atleti di tutte le nazioni, bandiere schioccanti alla mano, fanno il giro dello stadio gremito. A scandirne la marcia trionfale è la melodia senza tempo di One Day Like This, che i rimbombi della London Symphony Orchestra rendono ancora più esaltante e gagliarda, una pura vertigine di lampi divini. Mai titolo fu più appropriato, con ogni probabilità. Le parole di quella splendida canzone vengono intonate da un gruppo, certo non sconosciuto ma nemmeno “famoso” in senso stretto, che giunge a quel momento di luce finale come un atleta prosciugato dalla fatica arriva al traguardo di una maratona che pareva davvero senza fine. È forse proprio in quel giorno di celebrazioni in mondovisione che la lunga corsa degli Elbow acquista un nuovo significato. Ma occorre fare un passo indietro, forse due.
Gli Elbow nascono a Manchester, città tra le più illustri nella geografia musicale d’Inghilterra, dove molte sono le band che, decennio dopo decennio, hanno scritto pagine o interi fondamentali capitoli di una Storia ancor oggi apertissima e vitale (si pensi ai recentissimi Money. Eppure gli Elbow impiegano quasi cinque anni a pubblicare il loro disco d’esordio. Si formano infatti nel 1997, dopo una serie di progetti interlocutori, per iniziativa di un allora ventitreenne Guy Garvey, curioso prototipo di artigiano “tuttofare”, dall’ingegno quasi rinascimentale: polistrumentista versatile, sottilissimo paroliere, ma anche produttore discografico (si ricorda il lavoro al fianco dei concittadini I Am Kloot), conduttore radiofonico, dottore in arte (per iniziativa della Manchester Metropolitan University, che gli conferisce un dottorato onorario), filantropo nonché raffinato conoscitore di luppoli e birre che a tempo perso produce. Ad accompagnarlo sin dall’inizio sono i fratelli Mark e Craig Potter alle chitarre e alle tastiere, più il batterista Richard Jupp e il bassista Pete Turner. Malgrado arrivi quasi subito un abboccamento con la Island, la band, per via di rocamboleschi avvicendamenti di proprietà fra etichette discografiche, vede sfumare, assieme al contratto, anche un debutto già registrato. Riesce però a pubblicare tre EP, in sequenza tra il 1998 e il 2001, sulla piccola Ugly Man Records (gli oggi oggetto di sfrenato desiderio collezionistico The Noisebox Ep, The Newborn Ep e The Any Day Now Ep, contenenti materiali in parte ripresi nel debutto) che fanno girare il nome degli Elbow nel circuito radiofonico e aprono ben presto le porte della V2.

Il debutto del 2001 Asleep in The Back, prodotto da due grossi nomi come Ben Hillier e Steve Osborne, tradisce nella grana dei suoni quanto nel suo esprit più intimo la forte idea di un rock molto “post”, per così dire, dai connotati assai radioheadiani (più OK Computer che Kid A, a ben sentire). Dalle canzoni si leva infatti uno sguardo lirico, ferito, ancora ebbro di utopie e formalismi tardo-novecenteschi lanciati con ogni forza verso un’immagine di futuro, oggi possiamo dirlo, invecchiata molto ma molto in fretta. Gli Elbow confezionano dunque un disco dai toni per lo più plumbei, inquieto e nottambulo, che sciorina ballate già tipiche di un nuovo intellettual-pop anni Zero (meglio Powder Blue, oppure Red, del brano eponimo, senza però omettere la grazia sospesa di Newborn, piccolo prodigio di arte genesisiana, con coda strumentale da pelle d’oca), che non si fatica a ritrovare nelle coeve imprese di band per più riguardi affini come primissimi Travis, Veils, Athlete, Starsailor, I Am Kloot, Doves (sorta di band gemella) o anche Badly Drawn Boy. Suggestioni e richiami arricchiti però, ed è questo forse il tratto più distintivo, da un’intenzione d’assieme apertamente neo-prog. Più che come band gli Elbow si pensano e agiscono come ensemble. Le loro movenze da accorti collezionisti di suoni e forme musicali sempre nuove, sventagliano nelle orecchie pregiati sinfonismi minimal-ambientali (Presuming Ed (Rest Easy) o la bellissima Can’t Stop) ma anche litanie affogate tra virtuosismi di concettosità barocca (Scattered Black And Whites) e schiume post-rock (Any Day Now). Si intuisce già un’inclinazione al grande affresco policromo, nonché il gusto per arrangiamenti complessi e tutti votati alla descrizione, per via “astratta”, di luoghi e figure dello spirito. Una musica “da vedere” che paga tuttavia ancora pegno a prolissità sparse non sempre perdonabili e a mezze misure da ricalibrare. Esordio, Asleep In the Back (ristampato anche in edizione deluxe nel 2009), che garantisce comunque al gruppo discrete vendite e il consenso della stampa (ne sia prova la nomination al Mercury Prize)…su Rockerilla 403 Marzo 2014 la monografia e l’intervista dedicata agli Elbow di Francesco Giordani.
ROCKERILLA 403 MARZO 2014

4-5

Condividi