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DEATH IN JUNE

30th Anniversary European Tour

Roma , 20 Ottobre 2011, Qube

 

In una Roma flagellata dai tristemente noti avvenimenti ‘apocalittici’ di turno (l’inferno del 15 Ottobre e  la furia degli elementi del 20) ha avuto luogo il concerto dei Death In June: un istante di magia in mezzo alla tragedia. Ebbene sì, malgrado i traumi e le profonde ferite subite dalla Capitale, l’esibizione romana, ottimamente organizzata da Guido Bellachioma in collaborazione con Radio Rock, si è svolta regolarmente come previsto. Addobbato con i paramenti e gli emblemi di rito, il  grande palco del Qube ha acceso così i riflettori sull’evento concertistico più atteso dell’anno. I Death In June mancavano dall’Italia da oltre 9 anni (da noi le loro ultime apparizioni risalgono all’Aprile del 2002), dopo che nel 2005 Douglas P. decise d’interrompere le trasmissioni live a tempo indeterminato. Oggi è eccezionalmente tornato in azione per celebrare il trentesimo dei Death In June, un atto dovuto per chi come lui ha vinto la sfida di una missione artistica tutt’altro che facile. Il pubblico lo ha premiato con un’affluenza a dir poco ragguardevole, arrivato da ogni parte del Belpaese. A fare da gruppi di spalla sono state chiamate due eccellenze della scena nostrana: Solar Lodge e Argine. Hanno suonato per circa 30 minuti a testa prodigandosi con le loro rispettive specialità. Il rock spaziale dei primi non ha faticato ad aprirsi una breccia anche fra coloro che i Solar Lodge neppure li conoscevano. In realtà il gruppo di Enrico Angarano oggi opera come Solar Orchestra, ma per l’occasione ha preferito assumere la denominazione storica, connotando tale scelta di una valenza simbolica in perfetta sintonia con l’aura retro-futurista della loro musica. Hanno messo a segno un’esibizione coinvolgente, allestendo uno spettacolo audio-visivo carico di potere ipnotico, di energie siderali prossime ai regni della psichedelia cosmica. Un’esultanza di malie avanguardiste d’altri tempi.

Bravi anche gli Argine di Corrado Videtta. È stato un piacere plaudire alle loro canzoni più belle ridisegnate in versione da palco, con l’organico ampliato dalla presenza di un giovanissimo cantore che si è prestato nel ruolo di voce bianca, come ad evocare lo spirito puro, il soffio sublime degli angeli. Una performance all’insegna dell’accordo iridato e della pronuncia melodica virata in chiave art-folk, dell’esecuzione cristallina e della ballata elettroacustica che culla emozioni da sogno. Un’altra splendida realtà nazionale di cui andar fieri.   

Con l’avvicinarsi dell’ora fatidica l’atmosfera s’è fatta irrespirabile all’interno del Qube, surriscaldata dalla febbre dell’attesa di una platea sempre più numerosa ed impaziente. Ed ecco che, camuffato sotto il candore accecante della maschera e della particolare divisa di scena, Douglas P. si fa largo fra gli strumenti per guadagnare il proscenio, puntualmente salutato da un’ovazione scrosciante. Ad accompagnarlo in retroguardia è il fedele soldato John Murphy, vestito in mimetica da neve, che prende posto alle percussioni. Riconosciamo la sferzante battuta ritmica di Till The Living Flesh Is Burned (dal primo album) ed è subito delirio. Da qui in avanti saremo travolti da un tripudio di emozioni epidermiche e sussulti interiori in continua evoluzione, da fenomeni di forze psichiche fatti scattare dall’incontro dinamico fra le corde arpeggiate dell’auriga Douglas P. e le pelli dei tamburi scientemente percosse dal titanico John Murphy, secondo quell’alchimia prodigiosa che, per quanto ampiamente collaudata, non crea mai senso di dejà vu, ma che viceversa è ancora terreno vivo di ascolti avvincenti, di euritmie vibranti, di armonici e bordoni che ricreano  il miraggio dell’immaginario deathinjuneano in tutta la sua visionaria immanenza. La voce di Douglas è uno strumento al servizio dell’umanità che si tinge di registri immensi mentre scandisce il suo ultimo canto di passione, questo facendo ricorso ad un repertorio ragionato che ne abbraccia l’intera carriera, dall’81 sino d oggi.  Non v’è ombra di ruggine nello smalto del suo accento lirico, v’è anzi l’urgenza tranquilla, la luce tagliente dell’esteta armato che ammalia la strofa intonando melodie senza tempo, squarci di poesia sonora che assumono via via nomi e intonazioni differenti:  Ku Ku Ku, The Honour Of Silence, Fall Apart, Leper Lord, Little Black Angel, Behind The Rose (Fields Of Rape), Rose Clouds Of Holocaust, Leopard Flowers, Kameradschaft, All Pigs Must Die, To Drown A Rose, Hollows Of Devotion, Peaceful Snow, He Said Destroy (versione ripresa dal recente Nada Plus!), But, What Ends When The Symbols Shatter?, Heaven Street, C’est Un Rêve… Le ultime tre tenute in canna per esploderle durante la serie di bis mozzafiato. Abbiamo ritrovato il pathos dell’eroe musicista che si adopera in prima linea per difendere le ragioni del suo ‘pazzo sognare’, la forza dello stile di un songwriter che della propria arte ha fatto espressione di bellezza-verità nuda e pura come il cristallo più puro. Meraviglioso ritorno.

Aldo Chimenti

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