BEN HOWARD
Universal
Di Ben Howard si parlava molto bene da tempo e Londra è tappezzata di manifesti sul concerto che si terrà tra sei mesi. Eccitazione eccessiva? La risposta è nelle tracce di Every Kingdom, negli intrecci complicati di acustica, nei cori inconsueti che si rincorrono, nella nebbia bassa che traspare in molte tracce. Il talento è indiscutibile, gli accostamenti si sprecano: Bon Iver, John Martyn; aggiungerei almeno Josè Gonzàles, sebbene qui vi sia una maggiore organicità emotiva: gli sguardi sono simili, ma cambiano i colori, gli ambienti. Old Pine mette già in scena quel che serve: una lunga introduzione strumentale si fa risucchiare da un ritmo battente che sale inesorabile; l’accordatura aperta, la ritmica fantasiosa, il cantato e il chorus stendono l’immagine onirica di una natura pulsante nei suoni, negli odori, nelle acque che scorrono, nelle creature che la abitano. Colpisce anche l’oscura Diamonds, con le sue delicate trame chitarristiche, i cori e le percussioni discrete, fino all’inatteso chorus sorridente e solare. E’ un folk che si bagna nel pop, pensato e suonato con una pacatezza rara anche nei brani più orecchiabili (The Wolves e nell’irresistibile singolo Keep Your Head Up) e che fa di Ben Howard uno dei nomi nuovi più interessanti in una scena particolarmente affollata, negli ultimi tempi, ma i cui talenti spiccano facilmente.
Paolo Dordi